Il Re (e le foglie, sugli alberi, d'autunno)

fallIn un tardo pomeriggio d’autunno il sole infiamma le foglie superstiti al primo freddo.

Nessuno tirerebbe in ballo Ungaretti per giustificare la bellezza delle foglie d’autunno – probabilmente nessuno sente nemmeno il bisogno di giustificarla. Si esprime in un quieto ma denso “qualchecosa” che difficilmente può essere fatto coincidere con un oggetto particolare – nemmeno le foglie stesse – e anche per questo può essere carica di quei mille sottili intrecci che il poeta evoca. Ricchezza sottile e astratta.

“Il re dello spazio infinito” è il soprannome affibbiato di recente ((Il re dello spazio infinito, di Siobhan Roberts, Rizzoli 2006)) ad H.S.M. Coxeter. Che non è un bastimento britannico, ma è l’autore di un libro che mi sono ritrovato tra le mani settimana scorsa, e al cui fascino ho dovuto, di nuovo, soccombere.

Il libro è in formato grande: 28 x 25 cm. È un coffee table book, ovvero da tenere sul tavolino del salotto, magari assieme ad un’antologia di Cartier-Bresson e ad un libro di panoramiche della polysmforesta amazzonica. Contiene immagini molto suggestive –  ma Coxeter non era nemmeno un esploratore (almeno non nel senso geografico del termine). Coxeter era un geometra, nel senso di un matematico che fa geometria. Faceva geometria per certi aspetti anche un po’ “fuori moda”, ma la costante nel suo lavoro è una squisitezza e un’eleganza non comune. E sì: il libro è un libro di geometria: il titolo è “Regular Complex Polytopes” (( Regular Complex Polytopes, di H.S.M. Coxeter, Cambridge University Press, 1974))

Ma cosa ci fa un libro di geometria sul tavolino del soggiorno? Io dico: la stessa cosa che ci fanno le foglie sull’albero fuori dalla finestra.

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Ipse dixit

Cito dall’introduzione di un articolo di matematica che ho letto oggi: (( Gelfand, Goresky, MacPherson, Serganova; Combinatorial Geometries, Convex Polyhedra and Shubert Cells. Advances in Mathematics 63, 301-316 (1987) ))

The geometry of this simple example is so beautiful that we decided to publish it independently of the applications. (( La geometria di questo semplice esempio è talmente bella che abbiamo deciso di pubblicarlo indipendentemente dalle sue applicazioni))

[I.M. Gelfand, R.M. Goresky, R.D.MacPherson, V.V.Serganova]

Una delle domande che mi si rivolgono più spesso riguarda la motivazione della ricerca matematica – e la domanda contiene sempre qualcosa del tipo “e poi cosa ci si può fare?” oppure “a cosa serve?”. Certamente molte idee nate come concetti matematici hanno avuto applicazioni tecniche considerevoli e utili. E spesso anche tra matematici si giustifica lo studio di una questione con il riferimento alle sue “applicazioni” (anche se le “applicazioni” di cui si parla sono ben lontane da problemi di praticità quotidiana). Ma la vera storia, come vedete,  è molto diversa.

E stiamo parlando di ricerca di punta, con autori di primissimo piano. Per dirne solo due, la consonanza di “Gelfand” con “Gandalf” non è priva di significato: il primo sta alla matematica degli ultimi 50 anni come il secondo sta alla magia di Hodgwarts. E MacPherson ha ormai raggiunto il nirvana dell’Institute for Advanced Studies a Princeton; l’ho incontrato ad una conferenza a Oberwolfach – dove una sera, seguendo una scia sonora in biblioteca, l’ho trovato  che suonava una sonata di Haydn su un piano a coda nella stanza musicale dell’istituto.

Uncle Lenny

“Zio Lenny” è il nomignolo con il quale tra i bambini di New York era noto Leonhard Bernstein. Geniale musicista, personaggio di immenso carisma e di classe mondiale… e lo “zio” musicale di tutti i bambini della città.

Ma cos’aveva fatto Bernstein, un personaggio “stellare”, per guadagnarsi l’ammirazione e la familiarità di tutti i bambini? (Continua…)

The Mall

Scrivo dalla parte “storica” di Sacramento, California, nata con la corsa all’oro e cresciuta con la ferrovia transcontinentale aperta nel 1865. Da qui un canale navigabile arrivava alla baia di San Francisco e, quindi, all’oceano Pacifico. Sacramento ha due “Mall” paralleli.

C’è il Capitol Mall, ovvero il vialone che dalla città vecchia porta al parlamento dello stato della California, e, parallelo ad esso, uno Shopping mall – uno di quei centri commerciali che vorrebbero riprodurre una finta strada con negozi e ristoranti.   Molto altro, oltre alla città vecchia kitsch, non c’è. Così, ieri sera per mangiare un boccone sono stato obbligato a far capo ai dintorni del “mall”. E lì, per fortuna,  ho incontrato Arvo e Richard.

carillon

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By special invitation

È il nome del programma che sto ascoltando, avendo per caso acceso la radio. Stasera stanno trasmettendo registrazioni dal vivo di un festival di musica vocale non meglio precisato.

Adesso sta cantando un gruppo Estone, poco fa uno Ucraino, ambedue con antichi canti popolari sacri della loro regione. Armonie affascinanti che si muovono al tempo irregolare ma inesorabile di onde marine, o forse al tempo del “respiro della terra”. Mi sono entrate sotto la pelle.

Poco prima un ensemble tedesco aveva cantato dei mottetti di Bach. L’uomo era senz’altro geniale, perchè nelle sue costruzioni pur così geometricamente, “astrattamente” calibrate respira un’umanità vivissima.

Guglie svettanti costruite dall’ingegno umano come trampolini da cui spiccare il salto verso l’in-conoscibile. Oppure lo sciabordìo omogeneo di voci che si cercano e si immergono in un’armonia di comunità stringendosi attorno al mistero. Quanto diversi sono i modi di porsi davanti agli interrogativi ultimi.

Simile è il suono di voci umane che si intrecciano, senza strumenti che le sostengano: la fragilità di uomini che si mettono in gioco ((studi psicologici mostrano che cantare in pubblico, o anche il solo fatto di aprire la bocca nel modo richiesto dal canto, è uno degli atti di “apertura” e “eliminazione di barriere” pi`u radicali.)) tenendosi per mano in equilibrio sulle funi tese tra una dissonanza e la sua risoluzione. E in questa empatia affrontano / evocano / cercano / celebrano …. (scegliete voi il verbo, e il sostantivo per completare i puntini).

Ecco, forse è anche questa ammissione di fragilità espressa da uomini, voci, ognuna con il suo personale contributo all’intreccio di mani che si sorreggono ad affascinarmi – e a farmi desiderare di unire la mia voce al coro. Ed è l’antitesi di tutto ciò che (per dirla con un eufemismo) mi impedisce di stabilire un legame con le frasi fatte di altre forme di manifestazione “religiosa” urlata e scritta sulle bandiere per radunare le masse dietro alla “verità” prima, e ai fondamentalismi poi.

Good night – and good luck.

Tartarov

Pochi minuti fa ho saputo che Jean-Jacques Hauser è scomparso qualche giorno fa. Aveva 77 anni. Jean-Jacques Hauser, compositore e pianista svizzero. Anni e anni addietro fece notizia in tutto il mondo per aver beffato organizzazione e pubblico della Tonhalle di Zurigo. Come? Si presentò come il grande pianista russo “Tartarov”, misero il suo nome in cartellone, fecero pubblicità e registrarono il tutto esaurito. Dopo l’esibizione applausi e standing ovation per il grande pianista venuto dalla russia. Quando lui disse che Tartarov non esiste e che lui era più elvetico dell’emmental – dopo qualche minuto di sgomento – tornarono ad applaudire, più forte di prima.

Ne parlarono ovunque, anche sui più prestigiosi giornali d’oltre oceano. E così Jean-Jacques Hauser Tartarov divenne celebre e fece qualche cosa per i suoi colleghi che unicamente per “non essere dell’est europa” non meritavano l’attenzione della critica. Si rintanò a vivere a Daro, vicino a Bellinzona. Dove visse fino a qualche giorno fa, assentandosi solo per concerti ai quattro angoli del globo e registrazioni musicali.

Perché ve ne parlo? Perché quando, a 18 anni, mi feci prestare una videocamera e decisi di girare il mio primo proto-cortometraggio, lo chiamai. Gli chiesi di apparire nel finale del film, e di suonare una delle sue famose improvvisazioni sui titoli di coda della pellicola.

Jean-Jacques Hauser

Andai nella sua piccola casetta di Daro, ricordo bene sua moglie che mi accolse alla porta e mi offrì un tè. Stanze piccole stracolme di opere d’arte (Hauser era anche pittore), le scalette in legno di quella casetta sviluppata in verticale, il pianoforte a coda nera al secondo o terzo piano, fra mobili antici, tappeti colorati cianfrusaglie e abat-jour. Una casa della nonna, ma più divertente e colorata. Il nostro rapporto fu splendido. Forse perché io, adolescente, non sapevo con chi avevo a che fare, per cui lascai a casa l’imbarazzo e tutte le frasi di circostanza. Il mio entusiasmo di ragazzino sopperirono alla mia ignoranza e lui, con la sua splendida moglie, mi intrattenne per tutto il pomeriggio in racconti musicali come avrebbe fatto un nonno con suo nipote.

Spero di averlo ringraziato a dovere.

Potete rivedere il film, 19:30 Diario di bordo, sul sito paranoiko, cliccando qui. Oppure potete riscoprire Jean-Jacques Hauser nel breve servizio che gli ha dedicato Il Quotidiano di oggi:
guarda la versione alta qualità (high)
guarda la versione bassa qualità (low)

Grazie Tartarov.

La via della seta

Oggi ho potuto assistere ad una prova generale di uno spettacolo del grande violoncellista Yo-Yo Ma e il suo “silk road project“. La compagnia si chiama così perchè, oltre a cinque archi, comprende diversi strumenti tradizionali asiatici – da una specie di liuto tradizionale cinese a un duduk armeno, a un sarangi indiano. Come dire: tutta la via della seta.

Si trattava di un’opera, con arie, recitativi e tutto, scritta da un compositore azerbaigiano, che racconta una storia simile a Romeo e Giulietta – solo che è una leggenda asiatica che circola da 1000 anni prima di Shakespeare. Non c’è recitazione – due cantanti, un uomo e una donna, inginocchiati, cantano a turno – immagino in azero – mentre su dei drappeggi vengono proiettati i sovratitoli del testo. Ma non è la solita storia d’amore… qui le passioni umane sono trasfigurate e le sontuosità del testo si abbinano in modo strano ma molto efficace alla sobrietà della musica, per creare una cosa che non so proprio come descrivere.

E la musica è un giocare finissimo e sapiente con la tensione suscitata dall’attrito tra suoni diversi. Sono lontanissimi gli schemi a noi familiari, compreso il sistema temperato. Il materiale è di carattere popolare e attinge alle più svariate tradizioni: i cantanti, secondo una tradizione araba, dipanano melodie arzigogolate in un raffinato gioco armonico di dissonanze sapientemente dosate – e le parti strumentali passano dalle atmosfere rarefatte dell’estremo oriente a piccole cadenze che sembrano presagire una czarda zigana,  da territori “occidentalmente” tonali a ritmi arabeggianti nella cui iregolarità si cela un’energia mai sfacciata…

E tutto questo, in qualche modo, non era un’accozzaglia di brandelli musicali alla rinfusa. Piuttosto, un aquarello di colori che si penetrano creando una grande tessitura di umanità. Finita l’opera – ovvero quando anche il monocordo cinese compie, glissando, l’ultimo quarto di tono per raggiungere tutti gli altri in quello che è forse l’unico, puro unissono di tutta la musica – ecco, lì è stato come arrivare alla fine di un unico, lungo, profondo respiro che ti riempie i polmoni di… non so cosa – ma è stato bello.