Celsius

è la parola che più immediatamente individua la differenza tra il luogo dove mi trovo per qualche giorno di vacanza e gli ambienti nei quali si svolge la maggior parte del film che abbiamo visto in compagnia l’altra sera a Locarno – “Lezione 21” di Alessandro Baricco, del quale vorrei parlare un po’.

Cominciamo con il dire che questo post potevo anche chiamarlo “schiuma”: la schiuma nella quale si frantumano i flutti sulle pietre sotto di me, così diversa dalla superficie di ghiaccio immobile con la quale si apre il film… e diciamo pure anche che ho appena interrotto la lettura di un romanzo di Wilde, che ha una prefazione fatta tutta a piccoli aforismi, tra cui: “L’arte in verità non rispecchia la vita, ma lo spettatore”.

Poi, dico che sicuramente un pregio il film l’ha avuto: ci ha fatto discutere. Qualcuno ha addirittura detto che voleva proprio andarsi ad ascoltare la Nona Sinfonia di Beethoven integralmente per sentire veramente com’è – e questo è, a mio modo di vedere, un successo (anche se non strettamente cinematografico). Perchè il film racconta una “lezione” sulla Nona di Beethoven – più precisamente, una lezione sulla distruzione dello “status” di opera d’arte sublime di questa sinfonia. Narra che il professor Killroy ha passato anni a dissacrare, distruggere opere che – a suo dire – sono considerate immeritatamente capolavori; e la sua lezione più famosa, la numero 21, trattava appunto della Nona.

Naturalmente, ognuno è libero di ritenere che la Nona di Beethoven sia brutta – non c’è problema. E quindi non vedo nulla di particolarmente sconcertante nel dire, come fa il prof. Killroy nel film, che nella sinfonia non ci sia bellezza. Ma bisogna riconoscere – e infatti anche Killroy lo fa, in un passo che getta una strana luce su tutta l’operazione – che nella sinfonia c’è genio, potenza, arte.
Quello che mi fa rimanere un po’ perplesso sono gli argomenti che Killroy-Baricco porta per sostenere che la sinfonia sia da svalutare in quanto opera di un musicista ormai superato, alle corde finanziariamente e alla ricerca di un po’ di successo tramite qualche fuoco d’artificio. Tali argomenti, infatti, pur presentati come nuovi e rivoluzionari, sono tutti noti da anni e possono essere integrati da molti altri elementi in un quadro storico e artistico piuttosto preciso. Voglio consigliare caldamente la lettura interessante e molto accessibile del grande Massimo Mila, Lettura della Nona Sinfonia, Piccola Biblioteca Einaudi, dove molte fonti e punti di vista sono confrontati e vagliati.

Leggendo tale libro ci si accorge che anche ciò contro cui Baricco conduce la sua battaglia, la mitizzazione romantica di Beethoven e delle sue opere, non è più attuale da almeno vent’anni. Già Mila non adotta più il punto di vista “adorante a tutti i costi” contro cui Baricco (giustamente) si scaglia, ne’ nell’introduzione/contestualizzazione, ne’ nell’analisi della materia musicale – che è ciò che dovrebbe interessarci davvero.

Io credo che la materia musicale della Nona Sinfonia di Beethoven sia straordinariamente vitale, plastica, originale, imponente e duttile al tempo stesso. Come i flutti che si frangono qui, contro gli scogli. Poi se non ti piace è un’altro conto, tantopiù se ciò accade per motivi interpretativi o in senso lato extramusicali. Per trovare un esempio non bisogna andare lontano: prendiamo l’inizio del primo tempo. La materia musicale è un’armonia di quinte vuote (la-mi), punteggiata da passaggi di tre quinte discendenti (mi-la): prima i violini, poi le viole, poi violoncelli e bassi. Tutto “piano”. Materia, nella sua semplicità, originale: per una ventina di battute non viene determinata nessuna tonalità (la maggiore o minore?), e comunque non c’entra con la tonalità d’impianto (re minore).
Duttile e plastica: nella sua essenzialità, basta che il direttore d’orchestra richieda un po’ d’accento o un’attacco un po’ più soffice sul salto dei bassi per aprire mondi diversi – la pallida bruma che annuncia il mattino sui prati scozzesi o il brivido remoto che assale chi si avventa all’imbocco cupo e spaventoso dell’Ade.
Vitale: nella fattispecie, qualsiasi possa essere l’esecuzione e l’interpretazione, esiste in queste battute un senso di presagio, una specie di velata irrequietezza: una di quelle cose che si possono dire solo in musica, appunto, e che – fermi lì! – non è extramusicale, non è ancora una delle emozioni che poi la musica evoca nello spettatore, le “garden-variety emotions” di Peter Kivy (cfr. il suo interessantissimo Introduction to a philosophy of music, OUP). Secondo questo autore tale connotazione è un aspetto insito nella musica stessa; mi sembra molto interessante questa via mediana tra, diciamo, gli “emozionalisti” e gli “strutturalisti”.

Ecco. tutto questo e molto più nella prima decina di battute della sinfonia (e lascio perdere, seppure a malincuore, l’entrata delle prima nota “estranea”, quel “re” che può diventare l’affiorare del maniero dalla nebbia, o il sole che la trafuga, o l’attracco di Caronte). Bello? Brutto? Non è il punto, secondo me. Trovata geniale? Trucchetto a buon mercato per riempire il botteghino? – e se poi anche fosse? In anticipo o in ritardo sui tempi? E chi lo sa?

Lo stesso vale per i due punti “musicali” che Baricco solleva per “dimostrare” la pochezza dell’opera: i rintocchi dei timpani all’inizio dello scherzo e la semplicità del tema del cosiddetto “inno alla gioia”.
Sui timpani sorvolo – d’altra parte sono all’interno di uno scherzo, e non ci vedo niente di male se il vecchio Ludwig voleva divertirsi un po’.
Quanto al tema dell’inno alla gioia, nel film è eseguito al pianoforte in primo piano, notando che non bisogna nemeno spostare la mano per eseguirlo. Sorvolerò qui anche sul fatto che, se proprio si voleva, il tema lo si poteva far suonare nella tonalità giusta, re maggiore, e non in do maggiore come nel film (nell’op. 80, considerata preparatoria per il finale della Nona, Beethoven aveva scelto il do maggiore. Se ha cambiato avrà avuto i suoi motivi). Mi concentrerò invece su due altri punti.
Primo: la linea melodica è senz’antro semplice, veramente “popolare” – usa (quasi) solo i primi cinque gradi della scala maggiore (in modo che la possano suonare anche i ragazzi di Arogno sulle cinque campane della chiesa quando suonano “l’alegrìa” sotto Natale). Detto ciò, leggendo la partitura si vede che il compositore già nella prima esposizione arricchisce la melodia di qualche strizzata d’occhio: una sincope, un accento, insomma un po’ di strisciante ironia, tutto fuorchè ottusa (o interessata…) magnificazione di materiale scadente.
Ma soprattutto: chi ha detto che un tema non debba essere semplice? Non è proprio del genere sinfonico lo sviluppo di un discorso di ampio respiro a partire da un germe semplice e apparentemente innocuo?

Naturalmente neanch’io voglio mitizzare Beethoven: in un post precedente, ad esempio, ho già detto che secondo me la “pseudoripresa” del finale ha un che di superfluo, e per esempio è vero che il trattamento delle voci nella Nona è quasi un atto criminoso (Mila descrive anche le proteste dei cantanti che minacciarono di scioperare prima della Prima) – ma andando proprio ad uno dei passaggi incriminati, pensiamo al quartetto “alle Menschen werden Brüder wo Dein sanfter Flügel weilt” (qui, al minuto 2:00) che Beethoven vorrebbe in un fiato solo (problema che solo un uso massiccio dell’eugenetica potrà eventualmente risolvere). Chiaro, incantabile. Ma voi, il respiro, dove lo mettereste?

Ecco, forse quello che mi è mancato nel film è anche solo l’accenno a delle altre possibilità di lettura oltre a quella proposta dal professor Baricco. Lo si può capire alla luce della funzione chiaramente provocatoria del film, ma in un lungometraggio di tale respiro magari un’ombra di differenziazione si sarebbe potuta inserire.

Baricco stesso, in un’intervista, ha detto che lo scopo del film è far discutere. Come già detto, c’è senz’altro riuscito – e un’altra delle massime che compongono la prefazione de Il ritratto di Dorian Gray dice proprio “Il contrasto delle opinioni suscitate da un’opera d’arte indica che l’opera è nuova, complessa, vitale”. Ma qui si può innestare un argomento di sapore quasi Gödeliano: allora il fatto stesso che si faccia un film per far discutere su un’opera la rende automaticamente un’opera nuova, e vitale. No?

Scherzi a parte, è quasi tempo di porre fine a questi miei pensieri in libertà – sono già le otto e mezza, e il sole è tramontato dietro la punta Lin. Voglio finire con un’altra chiave di lettura del film, proposta da una ragazza che era con noi in piazza: e se il film non fosse su Beethoven in particolare, ma in generale sullo spazio che la “bellezza” (come “guizzo spontaneo e immediato di piacere”) ancora può avere nella vita dell’uomo maturo e vissuto, con il suo carico di esperienze e quindi di “strutture” nelle quali ha ordinato il mondo. Insomma, un film sull’estetica dell’ultima stagione della vita.

Interessante chiave di lettura, davvero, che a me fa venire in mente un’altra domanda, forse insolente: e se la Nona fosse in realtà una riflessione sulla morte, o di fronte ad essa – quasi il requiem che Beethoven non ha mai scritto? Idea balzana certo, e non ho ne’ l’autorità, ne’ la competenza, ne’ l’intenzione di sostenerla seriamente (è in contrasto con i documenti e la ricerca storica, credo) – è solo che più ci penso, più trovo che questa interpretazione (extramusicale, nel senso di prima) possa gettare una luce stuzzicante sulla musica. L’inizio: veramente allora una creazione dal nulla e lo stesso senso di sgomento del primo tempo del Requiem di Brahms. E sempre dal “Deutsches Requiem” lo strano senso di smarrimento lunare (“denn wir haben hier keine bleibende Statt..“) che permea il terzo movimento… mah. Pensieri ingarbugliati di una sera d’estate.

Ma ora basta davvero – tantopiù che mi accorgo di aver dato due indicazioni bibliografiche e nessuna per ascoltare davvero ciò di cui stiamo parlando. Ci sono, naturalmente, moltissime esecuzioni valide; io ne conosco poche e vi indico quella che per vari motivi mi è più “entrata dentro”: quella nell’integrale delle sinfonie di Claudio Abbado con i Berliner Philarmoniker, Deutsche Grammophon (2000).

Buon ascolto!

Postilla: sapete che Beethoven era andato la prima volta a Vienna per studiare con Mozart? Ma Mozart era talmente sommerso dai debiti e dai lavori da finire per pagarli che non potè occuparsi del giovane di Bonn, che comunque dovette ritornare a casa perchè la madre nel frattempo era morta. Ma, per un momento solo, e a costo di creare falsi miti: ve l’immaginate il giovane Beethoven a lezione di composizione da Mozart?

3 commenti su “Celsius

  1. Affascinata dalla lettura di questo commento, ho voglia davvero, ora (e solamente ora), di andare a riascoltare la nona di Beethoven, contenta che si sia inserito anche il mio breve suggerimento: un raffigurare le vecchiaia che fa i conti con se stessa e con il suo passato parlando di grandi personalità da parte di un autore non tanto in là con gli anni, Alessandro Baricco, … gelo e ghiaccio in un luogo disperso dove insegnare quello che terminerà in un violino silenzioso, con la bellezza che sfugge …

    Dopo aver letto tali notazioni mi pare che il film non dica nulla di nuovo da un punto di vista musicale (io profana di tale mondo raccolgo parole altrui), sia anzi solamente l’apoteosi di una carriera da grande musicista – perché tutti lo ascoltano, lo conoscono e ne parlano? – (e sento la passione nei confronti di questo mondo e dei suoi componenti che si palesa in questa lettura – Mozart e altri e seguire e precedere in un filo della storia che sono fila di note appisolate su righi), una grandezza che Baricco vuole distruggere (“persistenza è solo l’estinzione”, Piccolo testamento di Eugenio Montale, in La bufera e altro) dichiarando che per congenito dna un essere umano non abbia possibilità di cambiare se stesso nella vecchiaia. Siamo sempre e ancora solamente quello che siamo e continuiamo a costruire su quanto sono le fondamenta apprestate … dalla giovinezza e dalla maturità.
    Esseri biologici a cui a volte accade qualcosa. Alcuni scrivono Musica, altri creano altro. Magari incantano.

    Cosa significa quel cercare la vera vita (la bellezza? La grandezza?) nei bassi fondi da parte di un principale professore allampanato (che spiegherà la lezione 21 raffigurandola con l’insegnante di musica poi ghiacciato) che ha come scopo vitale (ne ha fatto il suo mestiere) la distruzione di presunti capolavori di una anche vicina antichità – fondamenta storiche di un oggi e motivo di dialogo? (Si inserisce qui la questione sulla grandezza: dei capolavori o di chi ne parla?) Che tale vita intensa nel film sia solo nella particolarità dell’alternatività, in quel cercare una presunta vita alternativa … a che? Denaro e vita in fabbriche dimesse? A me pare che pure l’argomento genio e indigenza (realtà di Beethoven e Mozart e tanti altri che oggi si studiano e adorano) sia superato,
    ma forse il racconto rimane nella giovane donna che va a trovare e scoprire l’insegnante e … nell’essenza umana, mentre i piani della narrazione si intersecano e non lasciano magia … sfugge pattinando sul lago raggelato (l’uomo la allontana per sua dichiarata vecchiaia).
    La valutazione di denari (abbondanti o mancanti) non può nulla contro genialità che ancora creano o distruggono se stesse e il proprio fare per rinnovarsi dall’interiorità incessantemente, forse anche solo aggiungendo mattoni mancanti, coppi o lamiere a coprire mura o una cantina interrata (chissà). Calcestruzzo interiore o esteriore?
    I giovani sono bellezza che sfugge ai vecchi?

    … e forse le grandezze delle persone e dei capolavori sono tali e restano, con il rammarico di chi le ascolta e continua a proseguire una vita …

    Quello che mi rimane mi pare sia un film di rammarico (o drammatico?) in cui il regista deve parlare di stanchezza e di distruzione. Glaciale o triste?

  2. Proprio oggi mi sono chiesto cosa mi ha affascinato di questo film che a tanti non è piaciuto. Poi ho letto il post di quella grande crapa dell’Ema. E il commento anche interessante di Lea, soprattutto quando dice chiudendo:

    “… e forse le grandezze delle persone e dei capolavori sono tali e restano, con il rammarico di chi le ascolta e continua a proseguire una vita …”.

    Ho ripensato al film di Baricco. E credo che a lui piaccia la Nona di Beethoven. Non so. Il suo film mi pare amore per la musica. Il film, nella mia lettura vostre un po’ naïf, racconta l’ultimo viaggio di un musicista, il suo passaggio post-mortem fra il mondo così come lo conosciamo e quel che c’è al di là. Il gruppetto di squinternati che smitizzano la Nona Sinfonia non sono altro che una sorta di Caronte.

    Nella religione greca e nella religione romana, Caronte (in greco ?????, “ferocia illuminata”) era il traghettatore dell’Ade. Come psicopompo trasportava i nuovi morti da una riva all’altra del fiume Acheronte, ma solo se i loro cadaveri avevano ricevuto i rituali onori funebri (o, in un’altra versione, se disponevano di un obolo per pagare il viaggio); chi non li aveva ricevuti (o non aveva l’obolo) era costretto a errare tra le nebbie del fiume per cento anni (/wiki/Caronte_(mitologia)).

    Un Caronte che per traghettare il musicista nell’altro mondo chiede un obolo: il violinista deve liberarsi di ciò che per lui è più caro, la Nona Sinfonia di Ludwig Van Beethoven. Il film si apre con il violinista morente. Si chiude con lui traghettato, trasportato, al di là, nella purezza bianca e immaccolata, dove la musica la si ascolta e la si ama per quella che è. Riprendendo le parole di Lea, solo ora che il violinista è libero da tutto ciò che sta dietro alla Nona di Beethoven potrà passare l’eternità senza nessun rammarico…

  3. Il professor Killroy mi ha trasmesso la stessa mancanza di speranza che trasmette mio padre, ormai rassegnato, sopraffatto dal proprio declino. È un fatto che, contrariamente a quanto insinua Baricco, spero non sia una costante, una legge immutabile della relazione tra l’uomo e il tempo.

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