Come non andare oggi a little Italy per vedere come vivono lì la fibrillazione di Italia-Romania? Ci arrivo verso mezzogiorno e mezzo e, dopo aver camminato davanti a diversi “italian reataurants” dove la gente mangia maccheroni alla carbonara anche a mazzogiorno con 33 gradi all’ombra e dove su tutto veglia il cameriere-avvoltoio che appena arresti la masticazione per 10 secondi ti porta il conto perché bisogna fare posto agli altri – dopo tutto ciò, dicevo, ecco che lo trovo.
“Caffè Palermo” (“Cannoli King of Little Italy”). Tutte le sedie voltate verso la televisione in fondo al locale, qualche tazzina di caffè espresso sui tavoli, camerieri rapiti dallo schermo con l’aria che se vuoi mangiare qualcosa aspetti la fine del primo tempo. E infatti io sono entrato a qualche minuto dal Quarantacinquesimo, appena in tempo per il gol subito annullato all’Italia per fuorigioco.
Esplode il bar! tutti scattano in piedi, e uno davanti a me alza i due pugni chiusi in segno di vittoria…
Un paio d’ore dopo ero da tutt’altra parte, ma sempre dietro la schiena di uno che faceva quel gesto lì. Era Lorin Maazel e stava dirigendo il terzo tempo della nona sinfonia di Gustav Mahler. Ohibò.
E poco prima c’era stato un breve momento western, quando ruotava in aria la mano destra con la bacchetta alzata, a mo’di cow boy (tentando evidentemente di prendere al lazo la prima tromba impazzita). Lo stesso sapore “far west” è tornato ancora, dopo il momento “Euro 2008”, quando il gesto rivolto al primo corno era chiarissimo: “questo palco è troppo piccolo per tutti e due”. Ma a pensarci bene Maazel ha ragione – se, come in questo caso, l’autore scrive sopra il pezzo “Allegro molto, quasi insolente”, una fugace apparizione di John Wayne sul podio non può che indicare una chiave di lettura coerente con lo spirito del brano.
Il pezzo però è “insolente” anche per un’altra ragione: infatti comincia con la tromba che presenta un motivetto poi ripreso ed espanso fino a farne una frase dal sapore molto “seconda scuola viennese“, che criticava Mahler dandogli del “reazionario ottocentesco”. Ma lui in questo movimento fa vedere che anche con del materiale del genere, così “moderno e avanzato”, non si va molto oltre (nel senso che vedremo dopo) rispetto a quanto si era fatto nel secondo movimento, che usa materiale più tradizionale, addirittura da Ländler. Ma intendiamoci amici miei: non pensate a boccali di birra spumeggiane in allegre feste campestri. Questo è un pezzo cubista!
I cubisti avevano avuto l’idea di dipingere dei soggetti accostando nella stessa immagine diverse prospettive (un occhio visto dal davanti, l’altro visto di lato, eccetera). E qui, analogamente, Mahler prende un ländlerino e lo scombina tutto, un pezzo di melodia al fagotto grave grave, e il prossimo pezzetto all’ottavino acuto acuto, e il prossimo ancora alla tromba, ma improvvisamente in un’altra tonalità… se avete presente, un po’ come fa Ravel ne La Valse. Ma se Ravel fa i giochi di prestigio strizzando l’occhio e con i suoi sgambetti dissacra la tradizione che viene dai minuetti di corte, qui Mahler, al solito, è troppo disperatamente sincero per prendersi veramente gioco di noi. In fondo, lui sta scombinando un Ländler, musica che viene dalla gente, dalla terra: è una cosa dannatamente seria – qui si parla di vite di persone, di identità, e l’impressione è che questa “identità” lui se la rigiri in tutti i modi, per cercarne l’essenza, e saggiarne la consistenza.
Naturalmente, ciò non toglie che in certi momenti la musica sia divertimento puro. Da un prestigiatore dell’orchestra come Mahler non ci si può che aspettare un repertorio inesauribile di trucchetti pirotecnici – e che trucchetti! Ne ho riconosciuti un paio su cui, anni dopo, certi arrangiatori jazz hanno basato un intero pezzo… La rigogliosa e fresca sorgente della penna di Mahler ne produce a decine, con disarmante naturalezza!
Però, però… mah. è come andare a vedere una commedia avendo una questione irrisolta in sospeso: ti diverti, ma in fondo in fondo c’è quel pensiero che non ti lascia. Anche qui, sotto sotto, c’è sempre qualcosa “che non va” – nei bassi, nell’armonia… mah. E nel terzo tempo, la cavalcata nelle praterie del West si blocca all’improvviso – come a dire: così non si va da nessuna parte!
Per quanto riguarda il primo e il quarto movimento della sinfonia, invece: boh.
Ma – se permettete – un “boh qualificato”.
Per qualificare il “boh”, spiegando anche il perchè dell’immagine di Mary Poppins, mi ci vorrà qualche altra riga: se ci state, allacciate le cinture che si parte!
Prima di tutto bisogna dire che da dopo Beethoven scrivere una nona sinfonia era una cosa speciale. Anche uno come Brahms si sentiva sotto pressione già a scrivere la prima sua sinfonia, tanto il modello Beethoveniano giganteggiava dietro le sue spalle. Ma scrivere una nona sinfonia significava addirittura misurarsi idealmente con il capolavoro al quale Beethoven aveva affidato la sua visione dell’universo, dell’uomo e del suo compimento in esso (e dico poco!). Una cosa talmente grossa che anche il vecchio Ludwig -se mi permettete l’espressione irriverente- si brucia le dita: mette in piedi una costruzione titanica, dalla “creazione dell’universo” iniziale, all’affermazione dell’“io” che si erge in mezzo al creato, fino all’estrema esortazione rivolta a tutti gli uomini a cercare il “lieber Gott” sopra la volta del cielo stellato, affratellati sotto la stessa dolce ala appacificatrice… e a me sembra che dopo il sublime passaggio in cui il quartetto canta “alle Menschen werden Brüder wo Dein sanfter Flügel weilt” (qui, al minuto 2:00), poi perfino Beethoven non trova più niente di veramente convincente: quello che segue è -mi si perdoni la sfrontatezza- una specie di ripresa-coda-zumpa-zumpa-zumpappà che però non dice più molto, al massimo aiuta a digerire un po’ tutto il fardello di emozioni di prima…
Ecco. Con questo si misurava Mahler, che però scrisse la sua “nona” quasi un secolo dopo Beethoven. E che secolo! Tra il 1824 e il 1910 ne è passata di acqua sotto i ponti.
Mahler viene dal tardo romanticismo. Io conosco solo un’altra delle sue sinfonie, la seconda, che quella sì a tratti tende a un titanismo quasi beethoveniano nell’esprimere la speranza nella risurrezione. Ed è piena di magnifiche melodie Mahleriane, e di accattivanti colori strumentali. Però la sensibilità dell’ultimo Mahler è modernissima, e nella sua nona sinfonia -specialmente nel primo e nel quarto movimento- compie la magia di esprimerla senza tradire il proprio linguaggio, ma affinandolo fino a distillare una musica eterea quanto sostanziosa.
– il primo movimento. Non ho capito quando è cominciato, ma forse è giusto così. Comincia con una specie di pulsazione irregolare, che non si sa da dove viene. Poco a poco questo sciabordio claudicante si estende a tutta l’orchestra, e dopo un po’ si arriva al cuore di tutta la sinfonia: due note.
Nel senso che tutta la sinfonia è costruita su una figura di due note.
Voi andate al primo pianoforte che incontrate, premete due tasti bianchi vicini tra loro, e avrete enunciato il nocciolo musicale su cui si basa tutta questa sinfonia: quello che in ternime tecnico è un intervallo di seconda. Qualche volta una seconda seconda maggiore, altre volte minore, altre volte aumentata… ma insomma: dal magma primordiale che sobbolle nell’orchestra di tanto in tanto affiorano, come bolle che arrivano in superficie, queste figure di due note. A volte due note ascendenti, a volte discendenti – e a seconda del caso, il colore del magma orchestrale in cui sono immersi cambia. Quasi uno Yin e uno Yiang che ricadono su se stessi, nessuno dei quali riesce mai ad affermarsi singolarmente.
Ecco, la modernità secondo me è in questa tormentata complessità, in questa disperata ricerca di un’affermazione oggettiva e positiva (in questo caso di un “vero” tema musicale) che però mai resiste il confronto con la sfaccettata molteplicità del reale (1). E non è sicuramente a cuor leggero che tutte le idee musicali che spuntavano e ambivano ad un’affermazione venivano abbandonate al loro destino, stroncate, non appena prendevano una forma definita. Poichè assumendo un’identità definita perdevano il dinamismo totipotente insito nel brodo primordiale nel quale l’orchestra continua ad essere immersa.
E man mano che sempre nuove idee vengono considerate e poi messe da parte, in qualche modo l’atmosfera si fa più rarefatta, raggiunge sempre nuovi livelli di astrazione, culminando nella lunga nota di violino e ottavino soli: un raggio di luce lunare, l’allucinato spaesamento dell’uomo moderno di fronte alla vita – e la conclusioe del primo movimento.
– il secondo e il terzo movimento. Ne abbiamo già parlato: cubismo, decostruzione, ironia, la seconda scuola di Vienna, John Wayne e la curva Sud. E il finale a sorpresa – più che un finale, un colpo di scure che tronca un prolisso fiume di musica luccicante e accattivante, come i megaschermi e le insegne di Times Square che brillano la sera in una girandola di colori. Ma anche a Times Square l’alba seguente mette a nudo tutte le brutture cui le luminarie offrivano solo distrazione, e non cura. Quindi tanto vale cercare di ricomporsi e proseguire nel viaggio già intrapreso. Certamente arduo e costoso, ma in qualche modo, sembra dirci Mahler, l’unico degno dell’uomo.
– il quarto movimento comincia nel modo in cui è finita la mia giornata di ieri. Sceso dal bus verso New York e attraversata la città ho potuto godermi una buona doccia ristoratrice che mi ha lavato di dosso il fragore del traffico e l’opprimente umidità del clima. Ma Mahler non bada a spese: più che una doccia, lui ci immerge nel bagno termale di una sonorità di archi e legni che riesce ad essere accogliente, calda ed espressiva senza essere sdolcinata, senza perdere una certa “grana grossa”, le venature degli alberi dei boschi moldavi, a segnalare che si torna all’essenza, a toccare con mano la vita vera.
Non appena ci si ambienta in questa nuova sonorità, pian piano l’artista ci riporta al filo del discorso interrotto nel primo movimento, che riprende dalla nota che concludeva il primo movimento (non so se sia proprio la stessa, non ho qui la partitura, ma l’effetto era quello). Come a dire: nè il tentativo di “modernismo” del terzo tempo nè il tentato “ritorno alla tradizione e alla saggezza popolare” del secondo offrono una risposta completa e soddisfacente alla richiesta di senso, all’estremo interrogativo. E un po’ è peccato: in effetti da qui si cominca a sentire ogni tanto una piccola melodia che conoscete tutti – avete presente la canzone “Basta un poco di zucchero e la pillola va giù”? Ecco: Qui Mahler ogni tanto fa sentire le note che Mary Poppins canta su “…tutto brillerà di più”. Cioè, non proprio.
Il motivo ricorrente corrisponde a “tutto brillerà… di…” e poi va sempre a finire in qualche modo “storto”, scansando la tonalità, o interrompendo la musica o altro. È il modo di Mahler di dire: non è che si butta via tutto, anzi, sarebbe bello se l’approccio del secondo movimento avesse funzionato… ma, onestamente…
E allora via, ancora a cercare di “risolvere” (anche in senso musicale) quella nota sola, lunare, che ogni tanto torna, e ogni volta suscita un tentativo di risposta diverso. Il suono etereo di un violino, oppure la voce terribilmente umana della viola… e poi c’è ancora qualcuno che non vuole proprio arrendersi, come per esempio un violoncello che, testone, ci prova ancora: “tutto brillerà…”
Ma non c’è nulla da fare: ogni appiglio si sgretola nelle mani di Mahler, che è troppo onesto per non ammetterlo. Un’impasse che è l’uomo teso spasmodicamente al limite della sua forza, l’artista slanciato ad afferrare qualcosa che sembra solo poco fuori dalla suo portata.
Sembra che, dai, ancora uno sforzo, siamo arrivati fin qui… il momento catartico non può essere lontano…
In quel momento, un cellulare squilla alla mia destra. Io non sono una persona violenta, ma in quel momento…
Però, a pensarci bene, non è profondamente vero? Quello squillo di cellulare simboleggia le sempre più invadenti tecniche di comunicazione che hanno come scopo ideale la connessione continua dell’individuo con il mondo virtuale e del lavoro, e la conseguente “ottimizzazione del rendimento”. L’effetto di questa tendenza (o almeno il pericolo insito in essa – che mi trovo spesso a combattere) è duplice: da un lato lascia all’individuo sempre meno tempo per quel processo irrinunciabile e vitale di riflessione e approfondimento cui Mahler ci invita; d’altro canto, l’immersione nel mondo virtuale rischia di assopire quella sete di realtà profonda, del suono rugoso dell’inizio del Quarto movimento, e -assuefacendo ad un flusso sempre più impetuoso di “informazioni”- di spuntare le irrinunciabili armi del rigore e della critica… ma questo è tutto un’altro discorso. Resta il fatto che quello squillo mi suonava come l’estremo tentativo di tutti i blackberries di questo mondo di penetrare il “sancta sanctorum” a cui la musica di Mahler ci ha iniziato.
Naturalmente Maazel non ha fatto una piega, e la disperata impasse musicale continuava, tanto che mi chiedevo come mai potrà concludersi la sinfonia. Voglio dire: bisognerà pur finirla – ma finire è anche un po’ concludere, e Mahler è troppo onesto per contraffare una conclusione da spacciare come definitiva.
Infatti, qui c’è l’ultima sorpresa: non finisce. Ovvero: orologio in mano charamente ad una certa ora il concerto è finito, ma la musica non è conclusa. Ecco un esempio di quello che dicevo prima. Modernissimo, perchè non vuole dare una risposta, non invoca “auctores”, semplicemente vuole illustrare questo disagio esistenziale. Ma lo fa senza tradire il suo linguaggio musicale: la sinfonia termina sì sull’ accordo di tonica, maggiore, regolare, ma la strumentazione è tale che nota più evidente di quell’accordo è la dominante, che lascia appunto un senso di sospensione, di “…boh”.
Tanto che alla fine del concerto non sono riuscito ad applaudire subito. Solo dopo un po’. E poi, alzandomi, ho chiacchierato con il signore seduto vicino a me (non quello del cellulare). Geologo, libro sulle falde aquifere e la permeabilità del terreno sottobraccio, barba bianca, occhiali tondi cerchiati di metallo. Mi fa: “I still have to work on my Mahler: what’s all that about?” e a me è venuto di dire “it’s about not being about anything”!
Poi sono uscito e mi sono incamminato nel caldo di questa giornata estiva. Sono passato attraverso una delle zone dello shopping di moda, e mi sentivo un marziano. Poi è cominciata la zona delle banche e del “business”. Erano le quattro e mezza del pomeriggio e lo sguardo dei manage che uscivano dal lavoro con la valigetta piena di incrollabili certezze mi diceva: “per fortuna ci siamo noi a far andare avanti il mondo, mentre qualcuno sciala degli interi venerdì pomeriggio nell’ozio”…
Devo dire che la cosa non mi ha toccato più di tanto. Io una valigetta di certezze non ce l’ho, e ho dovuto sedermi in questo parco pubblico a mettere per iscritto qualcuno dei pensieri che mi affollano la mente – e se mi avete seguito fin qui meritate come minimo delle scuse per l’arbitrarietà e a tratti l’infondatezza, rispetto al testo musicale (che difatti non ho ancora visto), delle mie elucubrazioni: non volevo fare una recensione, ne un’analisi: semplicemente raccontare un po’.
Un’ultima cosa va detta, con sicura soddisfazione di nonno Hanslick: alla fine, quella di Mahler non è altro che buona, ottima musica. Non “dice”, “insegna” ne’ “spiega” nulla. Semplicemente, in qualche modo ti rivolta l’anima come un calzino, e a me, oggi , ha suggerito (tra l’altro) queste righe. Auguro a tutti di avere l’opportunità un giorno di vivere la nona sinfonia di Gustav Mahler (Kalit? 1860 – Vienna 1911).
(1) Sto rileggendo il testo sull’aereo di ritorno da New York. È un volo Swiss, e vi ho trovato una NZZ, che ho appena sfogliato. Mi è caduto l’occhio sulla recensione di un’esposizione d’arte contemporanea, che esprime benissimo il concetto. A proposito di una certa opera esposta il commentatore parla di immagini “… die eine vielzahl von Mikroerzählungen andeuten, die überall Fenster zu neuen Bedeutungsmöglichkeiten aufreissen – sich aber nirgends festnageln lassen, schon gar nicht auf eine zusammenhängende Erzählung”. Ecco: Mahler l’ha fatto, in musica, 100 anni fa.