Un voto senza paura

15.10.2019, news delle 12.30. Esseri umani fuggono da guerra e povertà. Massacri per proteggere la propria apparente ricchezza o garantirsi l’accesso a oro nero, materie prime e vie del commercio. Cime che crollano, ghiacciai che perdono 2 cm su 100 in una sola estate, funivie ferme, strade chiuse per frane ad ottobre e trekking “estivi” a capodanno. Traffico insostenibile generato da chi è costretto suo malgrado a un viaggio perenne per una paga più o meno dignitosa e da chi muove senza senso merce su camion semivuoti per poter abbellire l’utile.
Alternative ce ne sono, alcune le stiamo già portando avanti e ci rendono persone più civili e libere. Lo scopro ogni volta che vedo bici elettriche sorpassare le colonne di auto, negli scantinati delle case che contenevano i vecchi tank del gasolio divenuti spazi di gioco. Ogni volta che conosco qualcuno proveniente da un luogo lontano seduto di fronte a me in treno e possiamo dedicarci del tempo perché non dobbiamo avere gli occhi sulla strada.

Ciò che a prima vista pare come un rinuncia si rivela essere una ricchezza. Vorrei non fosse un privilegio per pochi ma una base per tutti. Credo che la nostra libertà sarà garantita solo se ci occuperemo del nostro pianeta e del prossimo, vicino o lontano esso sia. Senza false paure. È l’unica via. E oggi, a pochi giorni dalle elezioni federali, credo si possa contribuire a tutto ciò andando a votare. Si possono votare più giovani, più donne, più pensieri nuovi. Per non vivere in un passato già estinto ma guardare a un progresso sostenibile.

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Quella vecchia maglietta del Living Room Club

Qualche giorno fa durante un mini trasloco ho ritrovato una vecchia maglietta del Living Room. Era la maglietta creata in occasione delle notti speciali del Living Room al Grand Hotel di Locarno durante il festival del film, credo fosse il 2001. Non ricordavo di averla. È old style, un po’ fuori moda. Nera e bianca, al centro è stampato il logo del club, quel logo proiettato per anni alle spalle dei dj che hanno calcato il suo palco, un piccolo televisore retrò con le bolle accompagnato dalla semplice scritta arancio-bianco-nera: LIVING ROOM.

L’ho indossata e mi andava stretta.

Non mi é facile scrivere due righe per salutare il living. Pensieri contrastanti mi passano per la testa assieme a ricordi ed emozioni lunghi 20 anni. Il passato delle serate fisse al living si confonde con un presente in cui le notti da Mauri e Jamf erano diventate più sporadiche.

Come la mia t-shirt, il Living Room forse iniziava ad andar stretto. Forse non era più abbastanza grande per vestire le notti lunganesi di chi vuole sempre più eventi da “place-to-be” e non è particolarmente attratto da una proposta musicale fuori dai propri schemi. Il mondo “social” sta spingendo a fare e consumare ciò che già è stato detto ci piacerà, ciò che è stato condiviso a priori e non porta rischi. Va stretta l’idea di una notte con una proposta musicale che magari non ha nulla a che vedere con il nostro gusto; una serata durante la quale il miglior ripiego è una partita al trözz – che personalmente sono riuscito a perdere nel 100% delle sfide – e due chiacchiere, in quell’ora della notte in cui la batteria dello smartphone è al 2% costringe a vivere il presente.

Il Living Room era diventato old style. Il living non tempestava i social di immagini, storie, inviti, snapchat. Non ci trovavi il privé, ne la guest list e neppure l’influencer. Ci trovavi gente normale, quella che “al living ci entro anche io con addosso un paio di jeans e un maglione”. Non faceva distinzioni; dal metallaro al rockabilly passando per quelli “normali”, non sapevi cosa aspettarti mentre salivi quella prima rampa di scale diretto verso il dancefloor o il bancone. Al living una volta entrato eri spinto a farti prima di tutto un giro di perlustrazione, scoprire la serata perché quel che ti proponeva non l’avevi già assaggiato in anticipo sullo smartphone. Era old style in questo, ma non ancora abbastanza per essere vintage.

Nel nostro armadio troppo zeppo di offerte e controfferte in cui una città di gran lunga troppo protagonista la fa da padrona il posto per i capi più particolari è poco. Le nuove proposte culturali nate e cresciute nel loro grande piccolo fanno purtroppo da contorno a una città che si può permettere cachet troppo onerosi per un privato, che può elargire spettacoli gratuitamente o a basso prezzo e andare “in rosso”, concedersi permessi speciali, bloccare una strada e deviare il traffico. La città con il suo lungolago concesso praticamente solo a sé stesso, le piazze d’estate, i locali per la musica live utilizzati per un suo cartellone batte ogni concorrenza. Se poi questo ruolo la città lo gioca piuttosto bene ecco che tutto il resto lentamente scompare. Ci piace, ne approfittiamo tutti e di certo non ci siamo annoiati in questi ultimi anni. Ma forse dovremmo anche ricordarci e ricordare che il ruolo della città dovrebbe – anche – essere un altro: mettere a disposizione mezzi e spazi è creare il contesto per cui quanto ancora non si conosce si possa esprimere in modo indipendente.

Sta di fatto che il Living Room, ci siamo dimenticati di averlo. Lo tiravamo fuori dall’armadio come il maglione di lana solo per le feste di Natale (imperdibile il Natale al living) e per qualche after senza pensare che se non lo indossi, un capo a cui tieni, si infeltrisce e poi lo devi buttare.

L’altro giorno quella t-shirt me la sono messa. Ho sentito un riverbero. Indossarla mi ha ricacciato in ricordi molto personali, a partire da quando nel living di Massagno, sold out con 30 persone, conobbi i “miei” primi dj local, alcuni dei quali poi divennero maestri e amici in radio, fin agli ultimi concerti live quando ci andavo a scoprire band o nuovi dischi e mi ritrovavo a chiacchierare con vecchi amici nel fumoir che sempre a fatica ho sopportato.

Al Living Room ho suonato con la band MUSh davanti a un vero pubblico le canzoni composte in cantina. Sempre al living ho girato i miei dischi preferiti in alcune serate brit. Vi ho pure messo in scena momenti di uno dei miei primi cortometraggi e il piano sequenza centrale del mio primo lungometraggio. Al Living Room ho preso grandi sbronze e ho pure ballato, sì, ballato io che “ci vuole assai prima di farmi ballare”. E così l’abbiamo salutato tutti, ballando.

Ognuno ha i suoi ricordi sul living ed è bello leggerli in questi giorni, seppur con nostalgia e la triste consapevolezza che Lugano oggi è più povera. Assieme ad altre realtà indie sta scomparendo l’offerta per qualcosa di non omologato e istituzionale. E fa male pensare che un ventenne oggi di Lugano non abbia, per ora, un living room come lo abbiamo avuto noi. Che sia uno stimolo a rimboccarsi le maniche per lottare e produrre nuovo ossigeno, vibrazioni e libertà. Il party di chiusura è finito, io la maglietta la rimetto nell’armadio. È parte del mio passato e mi ha portato fino a qui. Voglio che l’eco di tutte quelle serate al living continui a risuonare nel mio armadio. 

Con un sentito grazie a Jamf, Mauri e tutti coloro che hanno dato vita al Living Room Club Lugano.

07.05.2010, l'ultima volta che con i MUSh suonai sul palco del Living Room (foto Mauro Boscarato)
14.9.2012, al secondo piano del Living si scorge il manifesto di Tutti Giù (foto Archivio CdT)
Agosto 2001, credo. La t-shirt per "Living Room al Grand Hotel" di Locarno
18.5.2019, l'ultima notte al Living Room Club

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Ermanno Olmi

7 maggio 2018

Il cinema leale con la vita me l’ha mostrato Ermanno Olmi. Era il 2004, un po’ per caso ho frequentato un laboratorio di cinema ad Arzo tenuto da lui. Compito per gli studenti: scendere per strada e raccogliere una “postazione per memoria”. Io realizzai «Corso Elvezia», uno dei miei primi lavori di questo genere.

Il fine settimana con Olmi mi fece capire che dietro ad ogni fotogramma ci può essere tanta curiosità per la vita; che la cinepresa è il mezzo, quel che conta è ciò che capita oltre l’obiettivo. Ogni storia ha il suo modo per essere raccontata, una volta è un documentario, l’altra un film di finzione, l’altra ancora un libro. Olmi ti spingeva a osservare ogni piccolo dettaglio di ciò che avevi davanti, anche di tutto ciò che credevi di conoscere già.

Arzo (CH), ottobre 2004

Quando gli chiedevi se il suo cinema raccontasse la verità lui ti rispondeva che no, al massimo il suo cinema era leale. Leale con la vita.

Dopo il laboratorio in Ticino ho iniziato a frequentare ipotesICinema a Bologna, portato avanti da Olmi con Mario Brenta e frequentato da un gruppo a dir poco eterogeneo di curiosi di cinema. Là “Ermanno” – come lui ci chiedeva di chiamarlo benché noi provassimo un lieve senso di inadeguatezza – era sempre il più giovane e curioso di tutti. Il suo modo di fare cinema raccontava in modo sincero ciò che lui stesso provava nei confronti del mondo che conosceva o voleva scoprire. E così ci spingeva a fare durante i lunghi sabati ad analizzare i nostri cortometraggi. Dovevi imparare a incassare con Olmi ma ciò che ti tornava in dietro era qualcosa che non si trovava nei manuali di cinema. Olmi guardava ogni nostro breve film e faceva mille domande. Era curioso allo stesso modo nel comprendere meglio grandi temi filosofici come nel capire come si fa il pane.

A fine giornata le battute sagaci, ficcanti, accompagnate sempre da un bel pranzo cucinato “in foresteria”, erano il suo modo di ricordarci che non c’era stato giudizio nel dibattere sul lavoro di ognuno e che bisognava rimanere con i piedi piantati per terra.

Curiosità e sincerità con e sul mondo che si vive tutti i giorni, guardato in orizzontale, senza giudizio, senza mai guardare il proprio interlocutore dall’alto ma nemmeno dal basso. Era così Ermanno Olmi. E il suo cinema era altrettanto ad altezza uomo.

Mi mancheranno le sue enormi mani e il suo gran sorriso. Grazie per quanto di inesauribile ci hai regalato.

foto: Repubblica.it (http://www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2018/05/07/news/ermanno_olmi-195753839/)

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

4 marzo 2018

Mi sono a lungo chiesto come fare a riassumere umori, pensieri, riflessioni, frustrazioni e timori degli ultimi mesi in poche righe. Sono settimane che vorrei scriverle, forse solo per me, per non arrivare a domenica prossima 4 marzo senza averlo fatto. Ma sono settimane che tergiverso: mi dedico sia per strada che in rete ai singoli temi sollevati dall’iniziativa, rispondo e cerco di promuovere certe riflessioni, mi attivo per quel poco che posso su alcuni fronti ma non riesco a riassumere tutto in qualcosa di personale che rimanga lì in una paginetta o meno.

L’iniziativa NoBillag mi ha permesso, o forse mi ha costretto, di vedere con occhi nuovi al mio Paese, la Svizzera. Benché non sia un dipendente della RSI e formalmente non lo sia mai stato, a 15 anni ho iniziato lì un percorso professionale e di vita fatto di collaborazioni, scambi, incontri e scontri con l’ente radiotelevisivo nazionale; sì, con la RSI e più in generale la SRG SSR. Se vado più indietro poi, posso dire che il mio rapporto con il Servizio Pubblico RadioTV ha quasi la mia età e non perché abbia un parente “in azienda” ma perché da quando ho memoria ho ricordi legati in qualche modo alle produzioni della regione in cui sono cresciuto.

Il 4 marzo compirò 36 anni e posso dire quindi di averli passati anche in compagnia del Servizio Pubblico. E per questo lo ringrazio. Per l’amor del cielo, la RSI non è stata LA mia vita, ma parte di essa di sicuro. C’è stato e continua ad esserci tanto altro. E quella di rimanere indipendente è stata una mia scelta e sono contento di poter fare una mia strada. Ciò non toglie che, qualunque cosa accadrà domenica prossima, la ringrazio. Con un po’ di nostalgia e un po’ di coraggio, perché quel che abbiamo vissuto negli ultimi mesi lascia una cicatrice. Io, che da quando son bimbo vado orgoglioso delle mie di cicatrici, so che si può uscire più forti da certi sberloni, ma dopo aver lasciato il tempo necessario perché se ne guarisse. Come con un famigliare o gli amici delle elementari, la RSI l’ho amata e criticata, mi sono piaciute alcune sue caratteristiche e altre no, mi ha accompagnato in tanti momenti mentre in altri ho voluto proseguire da solo perché un po’ annoiato della sua presenza. Come tutto ciò che ci è molto vicino fin da subito, ha contribuito alla mia crescita, nel bene e nel male, ed è parte in causa di ciò che sono ora. Non so se sia stato un aspetto positivo che io perdessi qualche ora della mia adolescenza guardando le puntate di MacGyver, ricordo però con grande piacere quando con la mia classe di quinta elementare partecipammo (e vincemmo) a Big Box, con “il Seve” che a quei tempi più che performance sportive commentava i giochi di noi bambini in diretta tv. 

Quando a 15 anni, dopo aver tanto insistito, nella pausa estiva fra la prima e la seconda liceo, a Besso quelli di Rete Tre mi misero un microfono e un Revox (una macchina per montare le bobine audio) fra le mani ancora non lo sapevo che stavo muovendo il primo passo verso ciò che oggi è la mia vita. Non posso sapere quanto il pubblico radiofonico abbia apprezzato questa lunga e scoordinata presenza: probabilmente c’è chi ha amato certi programmi, altri meno. Ma sapere che ancora oggi va in onda BandZonAir mi rende un poco orgoglioso. E così, per me, poter andare e raccontare il Palèo Festival, il Montreux, il Festival di Locarno, poter fare lo staggista con Paolo, FAT! con Chià e Yari, Metropolis con una ciurma sempre diversa e operosa, parlare di vecchio cinema con Ale, mettere dischi nel cuore della notte e condividere così la mia grande passione per la musica, è stato un privilegio, un onore, un piacere e uno splendido lavoro. Ho passato ore e ore a far montaggi e tradurre interviste, non ero mai contento dei livelli e della sonorizzazione benché sapessi che a casa la maggior parte degli ascoltatori aveva una piccola radio mono accanto all’aspiratore in cucina. E così anche oggi, dopo qualche anno, passo le ore a mettere a posto un paio di suoni nel montaggio di un documentario per Storie con lo stesso spirito, conscio che in tanti quel documentario lo guarderanno sul loro tablet comodamente sotto le coperte magari con il volume al minimo per non svegliare i vicini. Tante avventure che mi hanno permesso di conoscere centinaia di persone, dentro e fuori la RSI, colleghi, tecnici, professionisti, interlocutori, ascoltatori, spettatori; avventure che oggi mi contraddistinguono in ciò che sono in positivo e nei miei tanti difetti. Tante avventure che se fossi nato già solo ad Andermatt o a Monza forse non avrei mai fatto. Forse, non posso saperlo. Avventure che potrebbero essere state migliori o peggiori, avventure per, con, da e in contrasto con un’azienda che è perfettibile, si mostra sì con alcune rughe e un po’ di ciccetta, ma che di sogni, storie, emozioni, passato presente e futuro ne racconta tante ogni giorno.

Benché questo attacco a qualcosa di vicino alla nostra identità e formazione, non solo la mia (e di questo ne sono certo), faccia male, a domenica arriverò con una nuova dose di coscienza e fiducia; arriverò conscio del fatto che esiste una Società Civile composta di persone che conoscono la differenza fra un bene nostro perché comune e un bene nostro perché individuale. E l’ho percepito in chi si è adoperato anche solo nel pensiero nella campagna per il NO a titolo volontario, con creatività e tempo perché solido in questo valore. Una Società Civile che forse ha dovuto prendere una cantonata per risvegliarsi e metterci la faccia, che forse si è rimboccata le maniche troppo tardi, ma che c’è e che se non smetterà di promuovere il bello, il pensiero, l’intelletto e le emozioni sane, condivise, potrà far tornare un poco di fiducia in tanti, troppi, che purtroppo – e qui sta la colpa di chi ha marciato in questo senso ma anche di chi non ha saputo difenderla – hanno perso la fiducia e cercano di sopravvivere convinti che non sia rimasto qualche sogno a cui ambire.

Lo spero, me lo auguro, per il mio prossimo giro di boa, il 4 marzo. Per tutti, anche per chi verrà e spero potrà vivere quel che ho vissuto io.

ps.: vien male perché vorrei citare tante persone, tanti luoghi, ricordi e in poche righe è dura. So che non si offende nessuno, ho preso un mazzo di ricordi fra gli innumerevoli a disposizione.

pps.: nella foto, il bambo con Badly Drawn Boy al Palèo Festival 2003. 

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Paolo Villaggio

Con il suo personaggio Ale e io abbiamo passato ore di chiacchiere. In qualche modo nel 2012 abbiamo provato a raccontarlo a modo nostro, nella puntata 51 di Arriva John Doe, per Rete Tre. Oggi Paolo Villaggio se n’è andato ma continueremo a fare le nostre passeggiate con Fantozzi, ne son certo.

ALE: Qui però Nico si va oltre il cinema. Fantozzi inizia prima e finisce dopo. I film lo portano solamente all’attenzione della massa. Fantozzi al cinema altro non è che un gigantesco specchio piazzato di fronte all’Italia del post-boom economico. Prima però c’è un libro, dopo, una leggenda.

NICC: esatto, perchè Fantozzi, portato in sala da Luciano Salce, nasce non da un ciak, bensì da una penna. La penna di quel Paolo Villaggio che poi, pur controvoglia, oltre ad avergli dato vita, gli presterà pure il volto. Fantozzi è un romanzo. Anzi, facendo un ulteriore passo indietro è esperienza. Esperienza sul campo. Villaggio lavora da impiegato in una grande ditta, vive e osserva la realtà “industriale” e ne ritrae il protagonista medio.

ALE: in sintesi un mezzo ignorante, sfigato, che sogna la collega bramata dall’intero ufficio e costretto a una moglie agghiacciante, la Pina, madre di una sorta di toporagno su due zampe, Mariangela. Fantozzi detesta la sua vita, ma è anche abbastanza umile e lucido per capire, al termine di ogni puntuale sconfitta, jella o caduta, che è l’unica che può permettersi.

NICC: Fantocci-Pupazzi-Merdaccia è l’italiano considerabile e considerato solamente perché proprietario di due gambe e due braccia, manovrate da una testa fragile, povera, vittima ideale di quel che un giorno sarà il mobbing. Il ragioniere Ugo è l’Italia tanto semplice quanto disarmante.

ALE: un soggetto perfetto per farne un ragù di comicità. E il cinema, puntuale, arriva. I primi due capitoli, Fantozzi e il secondo tragico Fantozzi, sono l’apoteosi del delirio comico/sociale. Sia chiaro, stiamo parlando di ottimo cinema.

NICC: certo, se per voi l’ottimo cinema è solo la Nouvelle Cousine Godard, allora grazie arrivederci, ma restando sulle corde comiche, di una comicità un po’ noir, un po’ malinconica, qui siamo di fronte a un gioiello raro.

ALE: la comicità di Fantozzi è trasversale. Travolge e conquista tutto: lingua, iconografia, narrativa, costume, politica. Non è un caso che il Fantozzismo diventi gergo comune, vocabolo del dizionario, immaginario collettivo. Perchè Fantozzi è l’osservato e l’osservante allo stesso tempo.

NICC: per osmosi Fantozzi assorbe da Villaggio, pessimista cosmico tendente all’apocalisse umana, e dalla società che lo genera ed accoglie. Assorbe, assimila, e ridistribuisce. Chi lo odia, e sono in tanti, facilmente è chi non riesce a digerirlo. A capire che è pane quotidiano, e buttare giù. Imbecille chi ride? Ma signori, lo si sa: spesso si ride per non piangere.

Arriva John Doe, ottobre 2012, Alessandro De Bon e Niccolò Castelli

 

foto Wikipedia

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

L’importanza di sapere (ogni tanto) dire NO – parte I

In passato ho sperimentato l’importanza di saper dire di no. Non è sempre facile. Fa paura dir di no: “e se poi ho perso un’occasione?”. Delle volte mi trovavo davanti ad un problema più o meno grande e arrivava l’idea: la prima idea. Pareva la soluzione perfetta, quella che in quattro e quattr’otto – perché non c’ho pensato prima?! – risolveva il problema. La fortuna (o un barlume di saggezza, chi lo sa?) ha voluto che prima di metterla in pratica prendessi del tempo, la lasciassi sedimentare. E così veniva a galla che sovente quella che sembrava essere la trovata geniale si rivelava essere unicamente la più facile. Sicuramente non la migliore. Riflettendoci, confrontandomi con qualcuno, chiedendo consiglio, avrei probabilmente trovato un’altra idea, forse più complessa, difficile, ma migliore. E anche se fossi tornato all’intuizione iniziale sarei stato felice di aver preso in considerazione altre possibilità.

Fra pochi giorni in Svizzera saremo chiamati a votare su alcune iniziative importanti per il nostro futuro, quello delle nostre famiglie, dei nostri figli, nipoti, degli amici di oggi, di quelli di una volta e di quelli futuri. E io dirò NO principalmente a due temi in votazione. Brevemente, mi soffermo sul primo, poi arriverà l’altro.

Al “risanamento del tunnel autostradale del San Gottardo” dirò di NO. No alla proposta di realizzare un secondo tubo. Intendiamoci, a prima vista mi è parsa una soluzione ovvia, la migliore per permettere il risanamento necessario, aumentare la sicurezza stradale di quel traforo che non amo attraversare, snellire il traffico e saldare il legame sociale ed economico fra Ticino e resto della Svizzera. Poi ho cercato di documentarmi, ho provato ad ascoltare e lasciato passare un po’ di tempo. Mi sono convinto che NO, quella che ci viene proposta è solo “la prima soluzione”, non la migliore. Altre sono possibili. Ci si chiede di approvare una decisione affrettata dettata (forse) da altri scopi; una soluzione che avrà effetto contrario rispetto a quel che si prefigge perché inviterà più automobilisti e autotrasportatori a percorrere una strada più snella e succulenta e di conseguenza più inquinata, rumorosa e meno sicura; una soluzione che ridarà vigore al trasporto su gomma nelle trattative nazionali e internazionali attenuando così di molto il potenziale politico, sociale ed economico positivo che il nuovo asse ferroviario AlpTransit porta con sé; una soluzione che sposta l’attenzione dal reale problema a un altro molto meno urgente e per il quale i promotori stessi del progetto hanno recentemente ammesso esistere possibili soluzioni alternative. E si potrebbe aggiungere che forse il problema del traffico in Ticino non è al Gottardo ma in entrata e uscita dagli agglomerati. E si potrebbe aggiungere che investire nel secondo tubo potrebbe togliere fondi ad altre opere più lungimiranti e importanti. E si potrebbe aggiungere che forse il risanamento è l’occasione giusta per proporre nuovi modelli, visioni per tutta la politica dei trasporti di merci e persone. E…

Il futuro è tutto da scoprire. Io credo che vada affrontato con idee e soluzioni nuove, immaginato con la creatività e la tecnologia di domani per un mondo da lasciare ai nostri nipoti di dopodomani. Mi piace la gente che propone “idee utili da divulgare” (TED) e investirei tempo e denaro in idee ora. Pensare a scambi culturali, commerciali, economici e sociali fra il nord e il sud delle Alpi che permettano di ridurre l’impatto sul clima in un territorio già martoriato, accrescendone sicurezza, qualità di vita e sostenibilità: di questo genere di idee necessitiamo. Be’, se non si fosse capito io domenica 28 febbraio dirò NO a soluzioni nate vecchie applicate a problemi del futuro e che, per di più, non sono ancora stati messi veramente a fuoco.

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Riccardo

21.1.2016. Lui è Riccardo e oggi è passato per primo attraverso l’ultimo diaframma dello scavo. Se ci pensi, è il primo ad aver percorso la lunghezza del tunnel del Ceneri. Come il primo ad aver conquistato la vetta del Cervino o il primo uomo sulla luna. Poi ne seguono tanti e diventa normalità, ma è lui il primo ad aver compiuto quei passi. Là dove l’aria sapeva ancora di esplosivo e l’ultimo diaframma di roccia era appena crollato a terra, seguito dai suoi colleghi e da tanti altri invitati in festa, Riccardo correva quasi, da quanto era orgoglioso e fiero. Abbracciava una grande Santa Barbara in legno intagliata da un altro minatore.

Chissà che emozione a Castronovo di Sicilia dove Maria Rosa, sua moglie, i suoi due figli, amici e vicini l’hanno seguito in diretta web. È dal 1981 che lavora sotto terra. Lui, la sua sciolta e tutti gli altri dell’avanzamento hanno impiegato 5 anni a scavarlo tutto, questo foro di 15 km. Penserò a lui, al suo non star mai con le mani in mano se non quando osserva le pareti della montagna in una sorta di dialogo silenzioso. Penserò al suo sguardo fiero e malinconico, al caldo, all’ammoniaca, al rumore, al limoncello che mi ha offerto dopo le ore passate assieme là sotto nelle notti di qualche mese fa. Penserò a Riccardo quando, fra 4 anni, in una dozzina di minuti sfreccerò attraverso quei quindicimila metri di montagna su di un treno. Perso a guardar il buio della montagna fuori dal finestrino.

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Parigi. Beirut. Kabul.

Parigi. Beirut. Kabul. In questi giorni le vedo da qui, da casa mia a Lugano; in un passato recente le ho vissute per le loro strade, in bar, caffè, in sale concerti e ristoranti. La Maroquienerie di Parigi come il Bataclan, il quartiere armeno di Beirut come quello sciita, il ristorante libanese di Kabul che ora non c’è più. Luoghi dove ho conosciuto persone. Alcune di esse non ci sono più. L’ultimo, a Parigi, è Thomas, il ragazzo che aveva accolto i Peter Kernel per un concerto di qualche mese fa che avevo accompagnato.

Il mondo che ho conosciuto io, quello di cui credo facciamo tutti parte, non è come lo descrive chi fomenta l’odio. Faccio parte di questo mondo, non è una cosa lontana, che non mi riguarda, per la quale non ho legami, responsabilità, diritti e doveri. Ce lo dicono i morti, quelle vittime accomunate dal loro essersi trovate nel luogo sbagliato in quel momento sbagliato, quel breve istante in cui la deflagrazione li ha resi tutti testimoni di questo unico mondo. Drone, cintura esplosiva, auto imbottita, AK47 o granata, poco cambia: ciò che resta sono cenere e sangue. Cenere e sangue a dirci che il mondo non è in equilibrio da troppo tempo. E che noi dobbiamo smettere di usare violenza se vogliamo essere liberi. Violenza del terrore, violenza verbale, violenza economica, violenza della paura, violenza politica, violenza geopolitica, violenza delle materie prime, violenza della chiusura, violenza dell’attentato, violenza dei bombardamenti preventivi… sono una trappola. Ci rendono persone meno libere. Possiamo condannare la violenza se non la ammettiamo, quella di chi si fa esplodere e quella di chi chiede che qualcuno si faccia esplodere, quella di chi alza un muro e quella di chi permette che un muro venga alzato. Abbiamo un equilibrio perduto da più di un secolo da riconquistare, lo possiamo fare se rinunciando alla paura di perdere i nostri privilegi costruiti su questo squilibrio ci apriamo a conoscenza e cultura, se ci affidiamo a ciò che ci differenzia e ciò che ci accomuna, se ammettiamo termini quali diversità, pluralità e identità per chiunque. E lo dice bene Sabika Shah Povia in questo articolo.

Kabul, Afghanistan
Kabul, Afghanistan, 2013
Beirut, Lebanon, 2014
Beirut, Lebanon, 2014

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Là sotto (Sigirino, 12.10.2015)

nel ventre della montagna

12.10.2015, Sigirino – Cordoglio. E solidarietà. A tutti i compagni, amici e colleghi del minatore che ha perso la vita quaggiù stamane.

Ho passato del tempo con loro di recente, la generosità con la quale ci hanno accolto e il loro orgoglio nel mostrarci il loro lavoro nel ventre della montagna mi hanno lasciato un segno.

Lavorano sudano, si spaccano la schiena, sono vicino a noi ma sono invisibili. Avanzano di 7-8 metri al giorno e quando avranno finito loro arriveremo noi, a 300 km/h.

E non sapremo mai il loro nome, benché di fatica, orgoglio e onore là sotto ne mettano in gioco in quantità da eroi. Anonimi eroi.

di più sulla tragedia

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Fuori Mira

«Fuori Mira» è il nuovo film di Erik Bernasconi. Uno dei tanti Bernasconi cineasti – tutti di talento! – nella nostra piccola landa, che quasi ti vien da pensare che non solo Coppola porti bene alla settima arte, ma anche questo cognome nostrano. Ma lui, quello che in molti definiscono come il regista più famoso di Camorino, che altri scrivono con la “c” al posto della “k” – una K che racconta il suo savoir faire tutto danese (sì, ha del sangue vichingo il Bernasconi!) – be’, lui per me è qualcosa in più: è il mio “gemello diverso”. O meglio, è così che ci ha definito Marco Jeitziner tempo fa in un suo articolo e così mi piace pensarlo.

“gemello”, perché Erik c’è sempre, mi capisce quando ho l’impressione di sbatter la testa contro il muro e si fa una sonora risata quando gliela meno con una delle mie para. Perché condividiamo una gran voglia di raccontare storie, una voglia così viscerale che mi sa s’è nascosta nel nostro DNA. Forse è proprio quella parte di codice genetico che ci rende fratelli; mi spiace Erik, ma un po’ ti tocca.

diverso”, perché Erik non fa i film come (cerco) di farli io. Lui li fa… altri. Dice cose che pensa e racconta emozioni che prova, come vorremmo fare tutti, ma lui lo fa in un modo che solo Erik Bernasconi riesce a fare. E al pubblico arriva tutto, non solo il piatto principale, ma anche il contorno. Anzi, quel che mi piace di Erik è che lui ti porta un piatto in tavola assai succulento e invitante da gran mangiata domenicale e mentre te lo serve sotto ai baffi se la ride. Perché dopo aver per primo assaggiato tutti gli ingredienti nel contorno lui c’ha messo qualche goccia di sano cinismo mescolato ad uno sguardo tutt’altro che perbenista sul mondo in cui viviamo.

Come in “Fuori Mira”, un film che parla del suo e del nostro territorio, di cosa è lui e siamo noi e dove stiamo probabilmente andando, fermi al calduccio dei nostri appartamenti (tranne il mio, che la stufa non funziona, ma questo non c’entra). Lui lo dice, “è un Ticino che non sempre mi piace” quello de-centrato in “Fuori Mira”. E lo dice senza giudicare ne sbraitare. Tu prendi, fatti una risata, aggrappati alla poltrona nella suspance e alla fine porta tutto a casa. Questo è il regalo che Erik e tutta la sua banda (sceneggiatori, attori, crew… non c’è mica solo lui, eh!) ti fa se vai a beccarti “Fuori Mira” in sala.

È uno spottone il mio? Un po’ sì, queste righe le ho scritte per invitarvi ad andare al cinema in questi giorni. Non poi, non “me lo sono perso ma lo aspetto in TV”. Ora. E io non mi sento in colpa: quando ci si adopera per condividere il bello non c’è nulla di male, no?

Ps.: Erik, è vero che te la ridi sotto ai baffi, ma quel pizzetto da vichingo non si può vedere…

 

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017