It's The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine)

Dopo tanti anni passati ad ascoltare funamboli dell’elettronica, artisti pop che raccontano Esta selva selvaggia, makam ottomani e melismi indiani, John Cage e Manos Hadjidakis, sabato ho trascinato il cadavere fino alla Kuruce?me Arena di Istanbul – ad un concerto dei R.E.M. Potere degli accrediti, perché per Stipe & co. non avrei – e non ho ancora – speso un soldo. Capiamoci, non li scago. È solo che non sono mai andato oltre al canticchio radiofonico.
Il punto, il primo. È successo che dopo quattro secondi dall’inizio del concerto sono stato assalito da un brivido, la cui origine, oltre ad avere effetti concreti sulla pelle, ha mandato una sequela di impulsi alla parte ragionante del mio cerebro. Che mi dice: “Ma vavangulo, tre accordi, anzi due. Te li eri dimenticati, eh?”, intendendo che mi si era ormai atrofizzato il punkimetro a furia di comperare dischi di strumenti monocorde dei monti Altay. È stato un trip piacevole fino alla fine.
Il secondo punto. Michael Stipe. Ci sono personaggi, che chiamerò I Moltiplicatori di sé, che possiedono il dono di essere più di quanto gli occhi siano in grado di vedere. È una questione di volume. La loro presenza è talmente grande che si riesce a sentirli fin quasi sotto la pelle; una roba astratta, il carisma, di cui ignoro le origini. Di sicuro non è una cosa fisica. Stipe è talmente rachitico che, oltre a poter sembrare mio fratello maggiore, ha le fattezze di un tossico partorito dalla mente di Irvine Welsh.
I Moltiplicatori di sé sono rari. Qualche anno fa, a Parigi, in un palazzetto dello sport avevano radunato una mezza dozzina di grandi nomi per una ricorrenza tipo Carta universale dei Diritti dell’Uomo: conferenza stampa con la Chapman più timida di un antilope, Thom Yorke tutto asimmetrico che perorava la causa e alcune giornaliste italiane che si lamentavano, sottovoce, del puzzo dei prodotti alla canapa distribuiti dallo sponsor (il Body Shop). Oltre a rifornirci di olio per i massaggi, riempiamo la gamella (mi accorgerò più in là che il vero mezzo di sussistenza dei giornalisti freelance sono gli aperitivi offerti alle conferenze stampa) e ci avviamo al palazzetto, dove arriviamo in pieno sound check.
Dando le spalle al palco, vengo assalito da un piccolo colpetto di tosse, una scatarratina vellutata amplificata dalle migliaia di watt accatastate lì vicino. Brividi. Bruce Springsteen. Se ne stava da solo con una chitarra senza far niente. Forse si grattava, si guardava i piedi o si toccava le tasche perché si era accorto che aveva dimenticato il borsello in albergo. Fatto sta che si è solo discretamente rischiarato la voce, causandomi paralisi alle sinapsi e rilassamento a tempo indeterminato dei muscoli della mandibola. Effetto Stipe, Gran Maestro della Confraternita del Moltiplicatore di sé.
Mi è successo pure con Bowie. Mi ci avevano portato gli amici. All’inizio del concerto ero al bar, con l’attenzione rivolta alla birra o alle tette, o a entrambi perché Bowie, proprio non mi si filava. Eppure, entrata in scena e… Sbam! Encefalogramma piatto! Incoscienza, sotto gli influssi ipnotici e carismatici del Gatto di Van.
Ora, i vecchiardi come Springsteen, presi a piccole dosi, mi sollazzano. Niente di più. Faccio parte di una generazione che, se li vuole, deve andare a ripescarli con qualche sforzo. Non venitemela a menare con storie del tipo “Ma come? I grandi del rock…” e tutte quelle balle lì. Non c’ero. Quegli anni, sono obbligato a guardarli da qui. E concedetemi la possibilità che, presi in blocco, possano anche non piacermi – anzi, di più, visto che sono stati il preambolo del mondo asfittico in cui annaspiamo oggi.
Sto andando fuori tema. O forse no: rimanere due ore davanti a Michael Stipe è stato come respirare a pieni polmoni seduti alla capanna Scaletta dopo aver fatto la Greina. Benedico i Moltiplicatori di Sé. E la tessera stampa.

2 commenti su “It's The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine)

  1. Palèo Festival di Nyon, non ricordo bene se era il 2002 o il 2003. Intervisto cani e porci perché a quel tempo chiunque metteva piede su di un palco, anche l’autista del truck scozzese che imprecando scarica le chitarre di Courtney Love dal tir, meritava un intervista tutta sua. Mi propongono di incontrare il cantante maliano Salif Keita, mi dicono un fragile cantante di 56 anni che porta il sound africano nel mondo. Cosa vuoi che sia: ho intervistato, Travis, Charlatans e Skunk Anancie in un giorno solo!

    Aspetto Keita nel backstage. Si apre la tenda che fa da porta, un sipario, e compare il vecchiettino “moltiplicatore di sé”. Il mio impianto di salivazione ha dichiarato sciopero seduta stante. Non so come sono passato da 1metro e 97 a 20 cm in un nanosecondo. Piccolo piccolo. Anche il mio registratore MD ha smesso di funzionare.

    un’ora dopo era in mezzo al pubblico e ballava e cantava con l’energia dei Sex Pistols. Io ero in un campo da solo, sconfitto.

    Grazie per aver ben descritto quella sensazione il brogio! Chissà. Siamo noi che moltiplichiamo loro o loro che si moltiplicano da soli?

  2. Ogni tanto mi chiedo cosa mi sarebbe successo dentro, nelle viscere profonde, se avessi incontrato di persona Madre Teresa di Calcutta, o Martin Luther King.

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