Arrivederci Kabul

Sono tornato da poche ore. Sulla pelle sento ancora l’odore dei Bukhari, quegli ingombranti riscaldamenti che trovi accesi nelle stanze di chi può permettersi il cherosene che li alimenta durante le freddi e lunghe notte afgane. L’inverno è arrivato presto, troppo presto quest’anno. Il mio è comparso come per magia. Il primo giorno di freddo sono uscito di casa scrollandomi di dosso i brividi un mattino e la sera, rientrando, ho trovato un Bukhari montato…

Leggo dell’ennesimo attentato suicida di qualche ora fa. Immagino il boato di quell’esplosione: a qualche chilometro di distanza somiglia al tuono di un temporale in avvicinamento. Il grigio di un cupo temporale che ogni sera l’Afghanistan vive da più di trent’anni. Eppure, ogni mattina pare splendere un nuovo sole. Un anno fa, al mio primo arrivo, mai avrei immaginato di un popolo che al “Buongiorno, come va?” quotidianamente risponde con una lunga fila di “Man khoobam. Khoob, Khoob, tashakor” (Sto bene. Bene, bene, grazie.) uno sopra l’altro accompagnata da sorrisi sdentati pieni di onore e ospitalità.

Durante questo 2013 ho scoperto un popolo dai mille volti. È impossibile dire a chi somigli un afgano. Lineamenti paschtun, tagiki, uzbeki, hurdu, aimaq, mongoli, ad accomunarli è il loro più grande desiderio: sperimentare la libertà. La conoscono solo dai racconti di chi viene da fuori, in pochi l’hanno vissuta.

Sono un privilegiato, grazie al mio lavoro ho potuto conoscere uno spicchio di quella terra. Accompagnato da un ospite premuroso e dalla memoria infallibile, sono entrato in quelle strette vie in cui è fin troppo facile perdersi (e nascondersi), ho stretto mani, chiacchierato e bevuto tè. Ne ho incontrati tanti di afgani, tutti ansiosi di raccontarmi la loro storia. Certo, so che nel condividere il loro passato hanno romanzato qua e là. A loro piace mentire sull’età ed esagerare un po’ nei dettagli. E tralasciare anche le varie scaramucce, le liti, le furbizie. Ma chi, con la fame alla porta ogni mattina non escogiterebbe il miglior modo per sopravvivere? Non sono così ingenuo da credere di aver capito tutto di quel popolo, di quella terra. L’Afghanistan è un grande intreccio e neppure dopo 20 anni credo si possa dire di averne afferrata l’essenza. Un punto però credo di averlo percepito. Mi parevano  tutti sinceri e simili quando chiedevo loro cosa sognano. Non uno che mi dicesse di voler vendicare i suoi defunti, di voler sfogare la sua ira contro Pakistan, occidente, Russia, arabi, consumismo, estremismi… No, l’unica e costante risposta era “vorremmo solo vivere liberi, avere gli stessi diritti di tutti gli altri”.

Ogni giorno ho visto migliaia di afgani alzarsi e camminare, compiere un passo avanti. Poi arriva quel tuono, un gesto codardo di chi disprezza ogni tipo di vita, civili, donne, bambini e umanità che butta indietro tutto il paese di 100 passi. L’esplosione di oggi sono 10 righe nei nostri giornali ma laggiù hanno un effetto devastante. Non è solo morte, feriti e nuovi disabili. No, ogni tuono è sinonimo di paura, di ONG che chiudono o riducono il personale, di riduzione delle attività umanitarie, di isolamento. Proprio ciò che vogliono coloro che spediscono poveri disperati carichi di esplosivo in mezzo alla mischia, indifferenti ad ogni tipo minimo diritto umanitario. Meno occhi vi sono sull’Afghanistan meglio è. Seminiamo paura, ed otterremo ciò che vorremmo. Povertà e ignoranza, è tutto ciò che chiediamo a questa terra, si ripetono loro. Ma in molti non ci stanno e si rialzano ogni mattina, ti sorridono, e cominciano a ricostruire ciò che è andato distrutto la sera prima. Khoob, tashakor.

Prima di partire l’ultima chiacchierata con Najmuddin. Eravamo sulla collina Bibì Marù al tramonto, sotto di noi la grande città brulicava in ogni tipo di attività, Da lassù non si vedevano i sacchi di sabbia che difendono le porte degli edifici e neppure i poliziotti armati fino ai denti ad ogni incrocio. Pareva una città come le altre alla fine di una giornata come le altre. Salutandolo ho detto a Najmuddin che mi spiaceva partire e che avrei cercato il modo di tornare presto. Senza guardarmi negli occhi mi ha risposto che mi avrebbe accolto: “un giorno – ha aggiunto – mi piacerebbe portarti a vedere tutte quelle parti del mio paese che non abbiamo avuto il tempo di visitare. In macchina, guido io, senza restrizioni, regole di sicurezza, check point, autisti e guardie. Liberi”. Sia lui che io sappiamo bene che quel giorno non sarà presto. Ma ci voglio credere. Voglio credere che me l’abbia detto per assicurarsi che io non dimentichi quella terra, quella sua gente alla quale lui porta un gesto umanitario giorno dopo giorno senza smettere mai di sorridere. Se vogliamo aiutarli nel loro sogno non dobbiamo dimenticarli. Dobbiamo sognare con loro, non averne paura. È tutto ciò che ci chiedono. E non costa molto.

È con questo ricordo che lascio l’Afghanistan, ringraziando chi mi ha ospitato: quei tanti disabili che sulle loro gambe artificiali stanno ricostruendo un mondo vero. Dico arrivederci a quel paese promettendo di non dimenticare.

Ps.: proprio oggi Alberto Cairo, il grande amico di Najmuddin e responsabile della progetto ortopedico del CICR in Afghanistan, ha ricevuto la medaglia Henry Dunant, la più alta onorificenza attribuita, ogni due anni, dal Movimento Internazionale Croce Rossa e Mezzaluna Rossa. Quando gliel’hanno comunicato ha risposto che non voleva la medaglia per se stesso, voleva la attribuissero a tutti i disabili collaboratori del centro ortopedico. Ed è riuscito a dirlo anche alla consegna davanti alla crème dell’aiuto umanitario internazionale… Vi consiglio nuovamente questo video: TED “Non esistono avanzi d’uomo“.

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