Trecentosessantacinque giorni

Trecentosessantacinque giorni. Ci si impiega un po’ a leggerli ma passano in fretta. È incredibile cosa può accadere in un viaggio lungo trecentosessantacinque giorni.

Un anno fa cenavo in un bel ristorantino nel cuore di Wazir Akbar Khan, un tranquillo quartiere nel centro di Kabul. Avevo invitato “dal libanese” alcuni nuovi amici, Verbena, Viviane, Greg, Michael. Altri si sono aggiunti all’ultimo momento. Gli appartamenti del CICR di Kabul sono un via vai di delegati e collaboratori che lavorano sparsi su tutto il territorio afgano e che dalla capitale transitano brevemente prima di ripartire per un lungo weekend di recupero o per altre sub delegazioni, impossibile ricordare tutti i nomi, altrettanto difficile dimenticare le storie che ognuno porta con sé.

Era il mio compleanno e “il libanese” era il luogo ideale per quella serata. A pochi passi dalla nostra spartana ma accogliente dimora quel ristorantino aveva il gusto della locanda per gente che vuol assaporare la vita sparsa per le vie della città. Era uno dei pochi posti in cui ci si poteva recare a piedi, muniti unicamente di una radiolina con la quale comunicare arrivo e partenza ai responsabili della sicurezza del Comitato. Passata la perquisizione di rito e varcata la soglia della porta blindata ti trovavi in un piccolo ma grazioso giardinetto con una fontanella al centro, alcuni tavoli in legno agghindati in modo povero ma grazioso, una tovaglia in tinta con l’edera cresciuta sulle pareti della veranda e un gran trotterellare di giovani camerieri afgani molto orgogliosi del loro savoir-faire con il menu in due lingue, persiano e inglese. E poi le immancabili rose cresciute un po’ ovunque. Un pasto semplice, libanese, mediterraneo e orientale allo stesso tempo che accontentò tutti i presenti. Tante belle chiacchiere, racconti sull’Afganistan e sulle altre mete vissute con generosità in più o meno anni al servizio della Croce Rossa, quella sera provai un sano senso di libertà e pace. Mi portarono anche due improvvisate fette di torta per il compleanno, non avrei potuto chiedere di più.

Quel bel ristorantino non c’è più. Poche settimane fa un attacco suicida ne ha spazzato via l’entrata e sventrato la veranda sul giardinetto portandosi via la vita del proprietario, di alcuni dei camerieri e altrettanti clienti. Greg e altri amici del CICR hanno sentito l’esplosione e gli spari dalle loro stanze del big compound, a così pochi metri di distanza da far loro credere che qualcuno stesse entrando in casa loro munito di AK-47. I vetri hanno tremato. Il respiro si è fermato per un istante in quel centro dell’anima che sta fra il cuore e lo stomaco e quello spavento è rimasto lì, sospeso, per qualche ora. Finché il libanese non è divenuto che un amarissimo ricordo. Il ricordo di anno fa. Un ricordo che non si potrà ripetere, perché quella locanda non c’è più.

Pochi giorni prima di quel mio compleanno atterravo nel cuore dell’Asia centrale e scoprivo tanto di quel diverso da non riuscire a digerirne che una piccola parte per volta, giorno dopo giorno. Un anno incredibile. Con o senza film sottobraccio, ho potuto sperimentare sulla mia pelle così tanta diversità da non saperla gestire. Dodici mesi in cui ho parlato di tutto e di nulla con cinesi, persiani e americani a casa loro, assaporando la loro terra, le loro pietanze, la loro cortesia, i loro profumi, il loro smog, la loro natura. Così tanti stimoli che alla fine di questo lungo viaggio durato un anno ho sentito il bisogno di trascorrere le scorse settimane a dormire un’infinità di ore quassù nelle mie alpi svizzere, dove mi trovo ora, immerso nella neve a digerire l’accumulo di informazioni ed emozioni lungo una vita. Un bisogno di silenzio per sentire una voce di buon senso dentro di me.

Cina, USA, Europa e Afganistan. Senza dubbio un poco di me è rimasto là, fra quelle montagne dell’Asia centrale. Ci tornerei domani a Kabul. L’ho lasciata con meno paura e più ricco di quando vi ho approdato. Laggiù ho conosciuto l’opportunità del diverso. Ne sono tornato un poco migliore, per quanto sempre pieno di tutti quei difetti che mi rendono così come sono, essere umano. L’Afganistan è da secoli il corridoio del mondo, un crocevia del tutto, e solo andando là ho iniziato a percepire il significato di quel termine: diverso. Sono un privilegiato, ho potuto entrare nelle case di pasthun e di hazara; stare intere giornate ad osservare uomini e donne vittime di 30 anni di guerra che plasmano su misura nuove gambe e braccia a chi, come loro, le ha perse a causa di una di quelle innumerevoli vigliacche mine sparse sul territorio; ho visto gente rimettersi in piedi, ascoltato le semplici parole di chi sta cercando un futuro per il suo paese che non sia una copia del nostro mondo occidentale “corrotto nei suoi valori materiali e lontano da quelli spirituali” ma neppure un brutale salto indietro nel tempo come quel famigerato “fondamentalismo” ha cercato di imporre. Ho visto un modo diverso di cercare un’armonia fra tradizione e modernità. Ho conosciuto giovani e alcuni anziani, donne che mi hanno invitato per il tè con le loro amiche durante la breve pausa delle dieci, ragazzini in skateboard per strada e atleti di basket in carrozzella che sognano di andare un giorno alle paraolimpiadi. Tanti nomi e visi che ripercorro in quei ritratti mentali e fotografici ogni volta che la cronaca mi riporta in quei ricordi.

Ripenso a Mirwais. Arrivò al Centro Ortopedico di Kabul accompagnato dal fratello Khan Mohammad lo stesso giorno in cui anche io vi misi piede per la prima volta, era il 2 marzo 2013. Sei mesi prima, affacciandosi dal negozio di frutta secca e spezie nel quale lavorava a Lashkar Gah, nella provincia di Helmand, una pallottola l’ha raggiunto al collo spezzandogli la colonna vertebrale. La sua, troppa curiosità per quegli spari che sentiva provenire dalla strada. Per altri, solo un dei tanti proiettili esplosi. Mirwais ha 18 anni, è pallido e assai magro, quando è arrivato qui le piaghe da decubito sulla sua schiena erano talmente grandi che quando lo hanno adagiato sul lettino ortopedico si potevano vedere le ossa del suo bacino. Lui e suo fratello non parlano una parola di inglese, ma giorno dopo giorno i nostri sguardi si incrociano, ricambiati sempre da un sorriso. Vogliono comunicare, poco importa cosa, vogliono stabilire un contatto, e io con loro. Ma l’imbarazzo della diversità e l’incapacità di capirsi verbalmente limita i nostri scambi alla mano sul cuore, che in Afganistan è il gesto che si accompagna ad ogni saluto, e al mio titubante “buongiorno” nella loro lingua. Finché, grazie al povero inglese di un altro paziente del centro improvvisatori interprete abbiamo rotto il ghiaccio. Un poco per volta Mirwais e suo fratello mi hanno raccontato i loro ultimi mesi, il loro viaggio oltre frontiera verso il Pakistan con la speranza di un’operazione chirurgica “miracolosa”, il calvario di doversi muovere fra montagne e strade dissestate sdraiati su lettini di fortuna per raggiungere quell’ospedale e la delusione dovuta alla sconcertante realtà annunciatagli dai chirurghi: il ragazzo non camminerà mai più. Rabbia e vergogna, eppure Mirwais non manca mai di regalare un sorriso a suo fratello mentre questo gli tiene in movimento braccia e gambe mettendo in pratica gli esercizi insegnatigli dal fisioterapista del centro. Sanno che dovranno rimanere per almeno altri sei mesi là e che la vita una volta a casa non sarà facile, ma sono assieme e la famiglia qui vale più della vita stessa. Mese dopo mese, Mirwais l’ho incontrato durante tutti i miei viaggi in Afganistan, ne ho visto guarire le piaghe, l’ho visto riprendere forza. Presto inizieranno ad istruirlo sulla sedia a rotelle e alla sua nuova, difficile vita. E anche se non potrà tornare mai a camminare, lui vuole rimettersi in piedi. Un giorno spero potrò andare ad incontrarlo nella sua casa di Lashkar Gah.

Se è vero che dalla terra nasce la vita, allora è un bene che lasciando per l’ultima volta l’Afganistan dall’oblò dell’aereo turco che mi ha riportato a casa non ho più potuto distinguere edifici, persone, strade e macerie ma unicamente montagne, altipiani e grandi vallate. Terra. Quella terra secca che ti rimane sulla pelle ancora per settimane dopo il rientro, permettendoti di sentirne ancora il sapore. Natura. “È sentirci separati da questa Natura che ci rende infelici” diceva Tiziano Terzani. Ho conosciuto un po’ dell’altra Natura, del diverso, quei visi che qui a casa rivediamo nel TG e ai quali diamo migliaia di significati: lunghe barbe, burqa, hijab, Mujaheddin, biciclette asini e carretti, blocchi armati, polizia, guardie private, esercito, melograno e zafferano… non ne voglio avere paura, sento il bisogno di conoscere meglio, condividerne i contrasti, quelli spietati e quelli splendidi, permettere al diverso che cresca così che pure io possa crescere grazie e con esso.

È stato un anno incredibile, straripante di diversità. Non posso chiedere di più. Il giorno del mio compleanno posso solo dire grazie, e augurare lo stesso a chiunque. Perché quel diverso è stata un’opportunità costante. Ho lasciato una parte del mio cuore laggiù. Loro mi hanno accolto senza chissà che timore, mi hanno mostrato ciò che sono senza preoccuparsi di doversi adattare alla cultura e il mondo che mi porto dietro, se non capivo poco male, avrei colto più in là. Sono così e non provavano paura, risentimento o invidia nei miei confronti, perché averne io di loro?

Intanto, “il libanese” continuerà a vivere solo in queste poche righe e nei ricordi di chi in quel giardinetto nel cuore di Kabul ha trovato una piacevole serata di libertà.

4 marzo 2013, Kabul – 4 marzo 2014, Maloja

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