Cultura o munizioni?

Il centro del paese di Mitholz distrutto, gennaio 1948

Cultura o munizioni?

Questo commento è apparso sul quotidiano La Regione del 14.04.2025  → all’articolo

14 aprile 2025 |di Niccolò Castelli, direttore artistico Giornate di Soletta

In tempi in cui si parla tanto di pace e sicurezza, mi chiedo: cosa significa davvero difendere un Paese, una comunità, un’identità? Spesso invocare la guerra e proclamare la pace in modo superficiale sembrano due facce della stessa medaglia. Entrambe, svuotate di senso, si riducono a un unico gesto: rifiutare il confronto e la diversità.
Da una parte, la guerra impone: “Ho ragione io”. Dall’altra, una certa idea di pace banalizzata pretende omologazione, uniformità: “Diventiamo tutti uguali”.

La cultura mette in rilievo la differenza. E per questo è forse ciò che più si avvicina all’idea di non belligeranza. Scrivere, riprendere, comporre, mettere in scena, salire su un palco, significa entrare in relazione con ciò che è esterno a noi, digerirlo, trasformarlo, restituirlo in forma di dialogo. Può assumere varie forme, anche dure, scomode, ma rimane nell’ambito del confronto teso all’incontro. Significa accettare che le nostre idee non sono universali. Che l’altro può avere una visione diversa.
Chi vive l’arte, anche da spettatore, attraverso opere di ogni tipo si misura necessariamente con ciò che lo supera o lo mette in discussione. Lo “scontro”, nella cultura, genera idee, non feriti.

In questo senso, la creazione artistica è forse uno degli strumenti più potenti per prevenire la distruzione: conflitto nel senso nobile del termine, senza spargimento di sangue, per vivere una libertà in cui ognuno resta sé stesso, diverso da tutti gli altri.
Eppure, guardando ai numeri, la realtà racconta altro: in Svizzera, il budget dell’esercito supera i 25 miliardi di franchi.
Per tutta la cultura – letteratura, teatro, cinema, musica, danza… tutta – la Confederazione investe meno di un miliardo. Ma siamo magnanimi: arrotondiamo per eccesso. Uno. Una cifra che non cambia da anni, benché in ogni ambito siamo tutti confrontati con un incremento dei prezzi e del costo della vita.


Un miliardo in più per gli ‘effetti speciali’
In questi giorni la Commissione del Nazionale ha proposto di aggiungere un altro miliardo ai 25 destinati all’esercito, per l’acquisto di munizioni.
Un miliardo in più per la polvere da sparo: effetti speciali con danni collaterali devastanti. Nel frattempo, la cultura si arrangia tra tagli, rinunce e riscritture, pur di restare in scena. Un miliardo in più per prepararsi alla distruzione, anziché investirlo in ciò che contribuisce a rafforzare il tessuto sociale e dà forma e voce alla nostra identità.

Un miliardo che va letteralmente in fumo (e sangue), mentre il settore culturale muove salari, famiglie, strutture, servizi, città, turismo, oneri sociali.
Ispira nuove idee anche in ambiti tecnologici e di ricerca, provoca sviluppando intuizioni, anche per contrasto, raccoglie storie dal passato e immagina futuro. Raccontando permette di sentirci liberi nel quotidiano, di ridere e piangere, guarire. E potrei continuare. È un universo, quello di tutte le realtà e professioni della cultura, che vive in una grande precarietà sociale ma di cui tutti, in una forma o nell’altra, approfittiamo. Un bene di prima necessità.

Raddoppiare il futuro
Con un miliardo potremmo raddoppiare il sostegno alla cultura, ai suoi professionisti e alle realtà che la contraddistinguono. Potremmo rafforzare la creazione di opere, festival, concerti, formazione, presenza nelle scuole, distribuzione e diffusione, scambio tra regioni linguistiche e farci conoscere ancora meglio all’estero. Potremmo dare mezzi a chi oggi lavora nella precarietà, garantire stabilità sociale e continuità, limitare la fuga di talenti. E al contempo potremmo dare maggiore accesso a tutti, goderne tutti, da spettatori, di questa vitalità. Potremmo, sì, raddoppiare. Raddoppiare il futuro.

La mia esperienza mi ha portato a vedere – a Soletta – un pubblico affollare le sale per film che raccontano il Paese da dentro e il suo rapporto con il fuori.
Opere, e discussioni a seguire le proiezioni, che mettono in dialogo lingue, sensibilità, generazioni. La cinematografia svizzera, oggi più vivace e sfaccettata che mai, è un’espressione forte della nostra identità condivisa. Sui set cinematografici che seguo in Ticino, vedo (giovani) professionisti qualificati che vorrebbero restare, non partire. Vedo alberghi vivere fuori stagione grazie alle produzioni e cittadini entusiasti scoprirsi comparse, affacciarsi a un mondo di creatività. Ispira.


E poi gli altri ambiti: la letteratura, da Friedrich Dürrenmatt, Max Frisch, Agota Kristof fino a Noëmi Lerch, argoviese venuta in Greina per scrivere in tedesco della vita sulle Alpi; da Plinio Martini a Fabio Andina, a ricordarci cosa eravamo e chi siamo. E con loro vi è chi traduce le opere e chi le pubblica e le rende disponibili: cosa sarebbe di questa produzione senza un sostegno di Confederazione, Cantoni, Comuni? La musica: penso al raffinato incontro fra rock e jazz di Sophie Hunger in concerti da tutto esaurito a Berlino e all’hard rock dei Gotthard, che da Viganello hanno dovuto valicare il San Gottardo per trovare sostegno, produzione, fino ad arrivare ai palchi in Giappone. Fino ai Peter Kernel che dal Malcantone, 60 concerti l’anno, girano un’Europa che li riconosce come una delle voci più originali della scena indipendente.
Il teatro: da compagnie ticinesi come Trickster-p, che partendo da Novazzano vanno oltre i confini della pièce nella sua forma classica, fino ai Mummenschanz, che per decenni hanno portato nel mondo il sogno senza nemmeno una parola.

Una scelta possibile
Tutto questo ci rappresenta. E ci fa sentire parte di una collettività viva. Ma lo diamo spesso per scontato. E senza sostegno, con i costi che aumentano, i primi a perderci siamo tutti noi, il pubblico. La cultura deve rimanere democratica, è un bene pubblico ma spesso lo dimentichiamo. Un miliardo in più alla cultura significherebbe rafforzare un dialogo che nasce dalla comprensione, non dall’imposizione.
Significherebbe dare dignità a chi lavora in modo professionale per raccontare ciò che siamo e ciò che potremmo diventare.

Vogliamo davvero difendere la nostra identità solo con i carri armati?
Vogliamo proteggerla con le bombe, o con le parole, le immagini, i suoni e le idee ed emozioni che la esprimono? Mi rivolgo alla politica: dirottare quel miliardo da un magazzino di munizioni a uno spazio creativo non rafforzerebbe meglio il Paese che rappresentate? Un miliardo in più per la cultura non è un sogno, è una scelta.
Una scelta possibile.
Ci vuole coraggio per farla?

Il collasso del Fluh e il villaggio devastato di Mitholz, gennaio 1948
Il collasso del Fluh e il villaggio devastato di Mitholz, gennaio 1948 - Archivio Federale Svizzero

A proposito di munizioni: “Una serie di gravi esplosioni avvenute il 19 e 20 dicembre 1947 in un deposito di munizioni dell’esercito svizzero a Mitholz, nel comune di Kandergrund, in Svizzera, causò una delle più grandi esplosioni artificiali non causate da armi nucleari.” Fonte: wikipedia

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Sofsky «Clusterphobia»

Sofsky «Clusterphobia» 

28.03.2022. Quando una band ti chiama chiedendoti un video per un singolo in uscita mi sento sempre allo stesso tempo onorato e spaventato. Non sai mai quale idea bizzarra ti proporrà. I Sofsky non volevano mettersi in mostra ma evocare una sensazione. Siamo entrati in vite sconosciute d’un tempo attraverso vecchi #Super8. #Clusterphobia uscito ieri. Buon ascolto!

Quasi padre (ancora) senza congedo paternità

Si al congedo paternità

Sto per diventare padre. Mi guardo indietro e penso a quando bimbo ero io. Poco meno di 40 anni fa la “normalità” era ben diversa: i padri andavano e venivano dal lavoro ritagliandosi momenti per figli e compagna durante i pasti e nel fine di settimana. Oggi il paradigma (finalmente!) è cambiato. Guardo attorno a me per cercare ispirazione e vedo sempre più coppie che hanno cercato altre strade per vivere e crescere una famiglia. Molte più donne lavorano.
Sempre di più si abbandona il concetto di coppia genitoriale in cui il padre è l’uomo autoritario utile tuttalpiù a portare a casa il salario, a far rispettare le regole in casa e a guidare l’auto in vacanza in favore di coppie nelle quali l’amore e il tempo dedicato ai figli arriva da chiunque sia chiamato a crescerli (perché non è detto, ma questa è un’altra storia, che genitori siano sempre e solo la mamma e il papà che li hanno concepiti).

Purtroppo però quasi sempre questo concetto di famiglia è possibile unicamente grazie al sacrificio dei genitori stessi che devono giostrarsi fra congedi non pagati, vacanze prese per poter essere di supporto nei momenti più importanti (la nascita del figlio, le prime settimane di vita, l’inserimento al nido), riduzioni di tempo di lavoro (quando concessi) e aiuti finanziari da nonni e parenti. Ogni tanto fortunatamente questo cambiamento è concesso, dai datori di lavoro, che spinti forse dall’esperienza personale forse dall’attrattività che queste misure esercitano nel mercato del lavoro, vengono incontro ai loro dipendenti. Ma la regola generale non è questa e chi mette al mondo un figlio lo fa consapevole che lo Stato, ovvero noi, ci siamo concessi ben poco per compiere questo viaggio chiamato famiglia.

Sto per diventare padre. Penso a chi nasce oggi e fra 30 anni vorrà mettere al mondo una/un figlia/o: spero che potrà contare su una società che ha messo al centro la vita, spero che potrà guardare al 2020 come un anno in cui si è fatto un passo deciso in avanti istituendo nella legge il concetto di padre che può adempiere meglio al ruolo con tempo e mezzi anche grazie al congedo paternità.

Non potrò godere di questo congedo io, spero lo potrà fare chi diventerà padre dopo di me.

ps: se da decenni le aziende sono abituate a lasciare andare i loro dipendenti al corso di ripetizione 2-3 settimane all’anno, veramente dobbiamo credere che sarà un disastro per l’economia se per un paio di settimane (solo, sic!) permettiamo ai neo papà di cambiare qualche pannolino e fare assieme alle/ai loro compagne/i quello che tutti definiscono il mestiere più importante della vita?

Si al congedo paternità

Si vota il 27 settembre 2020.

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Monte Ceneri 4.9.2020

Sento quotidianamente discorsi provinciali di chiusura fisica e mentale qui in Ticino e ciò che più mi preoccupa è che questi si sono trasformati in azione politica. Verso nord e verso sud.

Secondo alcuni, oltr’Alpe non ci capiscono e se ne fregano dei nostri problemi, da meridione vogliono solo rubarci il lavoro e portare criminalità. Facciamo gli sceriffi del far west e difendiamo il nostro territorio con speroni e pistola: la legge sono io. Poi viene inaugurato il tunnel del Monte Ceneri, di cui primi fra tutti godremo noi, in Ticino, e fatichiamo a ricordare che se oggi AlpTranist è una realtà lo dobbiamo un po’ a noi, certo, ma anche e soprattutto a Berna e a chi nel canton Jura, a Sciaffusa o Glarona, a partire dal 1994 ha più volte votato a favore di un’idea visionaria e del suo finanziamento senza trarre particolari vantaggi personali da tale decisione. Il traforo, poi, lo dobbiamo soprattutto a chi l’ha scavato: principalmente minatori italiani da Sicilia e Valtellina.

Voglio ricordarmelo oggi, quando nei media e sui social i bravi siamo stati noi, i ticinesi. Mi auguro che questa inaugurazione sia d’auspicio per una visione aperta verso nord e sud, per un’apertura che ci permetta di sfruttare ogni vantaggio umano, ambientale, sociale ed economico che il traforo del Monte Ceneri e di tutto il sistema AlpTransit portano con sé.

Queste foto le ho scattate con Riccardo, un minatore che nel 2015 ebbi il privilegio di poter seguire durante i lavori di scavo assieme al fonico Carlo Moretti.

Qui il post su di lui il giorno della caduta del diaframma nel 2016 → Riccardo

Qui sotto invece un omaggio al San Gottardo e al rapporto che abbiamo con questo massiccio, da sud a nord, che ho realizzato nel 2016 partendo unicamente da immagini d’archivio in occasione dell’inaugurazione del traforo del San Gottardo appunto. Scritto con Alessandro De Bon. → maggiori dettagli

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Endsieg e il quarto potere

Qualche giorno fa, dopo anni, ho tirato fuori da uno scaffale il mio film di diploma «Endsieg – Everything Changes in One Shot», girato a Maloja durante il gelido inverno del 2007 con i miei compagni di studi Daniel Casparis e Andreas Birkle. 

L’avevamo girato in pellicola super 16 mm. Solo oggi, in occasione della proiezione di cortometraggi Cinemarittima alla Foce di Lugano curata dall’Associazione Rec, pubblico online una buona scansione digitale HD con sottotitoli in più lingue.

«Endsieg» era un progetto un po’ pazzo. Un film in pianosequenza, ovvero girato senza mai spegnere la cinepresa in un’unica sequenza, poi smontata e rimontata per creare una seconda versione della stessa storia. 

La tesi era semplice: a dipendenza del montaggio, si può modificare radicalmente il contenuto di una narrazione e ribaltare il punto di vista, decidere chi sono i buoni e chi i cattivi.
Abbiamo cercato di obbligare chi guarda a rivalutare ciò che pensava di aver inizialmente capito. Il disorientamento dei giorni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, guerra in cui oltre alle armi anche la propaganda ebbe ruolo fondamentale, ci pareva perfetto come ambientazione temporale dove mettere in scena questa idea. 

Riscoprendo «Endsieg» con la distanza che il tempo regala, mi sono reso conto di quanto sia attuale oggi.

Il periodo che stiamo vivendo ci mette di fronte a questioni che riguardano le nostre libertà fondamentali, una fra tutte quella di avere accesso a un’informazione indipendente dagli organi di potere. Un’informazione libera di porre domande alle autorità, di seguire le storie che ritiene di dover raccontare, scevra di retorica e consapevole del suo importante ruolo nella società. La propaganda non è informazione. la prima è la voce dello stato, l’altra è lo splendido mestiere del giornalismo.

Sono convinto che il servizio pubblico vada sostenuto in questo senso, costantemente. Anche in periodi di “necessità” e “misure straordinarie”.

Potete scoprire di più su «Endsieg – Everything Changes in One Shot» → alla pagina del film.

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Marc Engels catturava il silenzio

** Texte en français plus bas **

Ieri ho ricevuto una notizia molto triste. È scomparso il caro amico e collega Marc Engles, l’ingegnere del suono di tante pellicole fra cui «Atlas». A informarci è la sua compagna di vita Sabine.

In Belgio, dove viveva, il Covid-19 se l’è preso. Veniamo a saperlo mentre siamo tutti chiusi nel nostro isolamento. Rimango basito, in silenzio.

Marc per me è stato un “regalo” venuto grazie alla bella co-produzione belga per «Atlas». Mi proposero di lavorare con qualcuno del Belgio, chiesi consiglio e mi fecero il suo nome: “è molto richiesto ma il tuo progetto potrebbe interessargli”. Un primo contatto attraverso la produzione, lui che legge la sceneggiatura, quindi una piacevolissima serata a chiacchierare, lui e io, in una brasserie di Bruxelles. Dopo qualche giorno l’email: Marc era dei nostri. Ero felicissimo vi fosse in squadra uno con la sua esperienza. E ancor di più dopo averlo conosciuto, perché oltre che bravo era simpatico, spiritoso, piacevolissimo, la persona ideale con la quale passare le settimane sul set.

Molti pensano che il lavoro di un ingegnere del suono sia più o meno registrare i dialoghi. Quando lo incontrai, davanti a un bicchiere di vino (Marc è tutt’oggi l’unico Belga che conosca che amava più il vino della birra artigianale) gli dissi che per questo film mi sarebbe piaciuto avere i silenzi. Marc si illuminò. Ci siamo capiti in un istante. Catturare i suoni di un film fatto di esitazioni, respiri, silenzi sospesi e poche parole strozzate in gola è dannatamente difficile. E Marc era maestro in questo. Con lui ho imparato tantissimo. Mai ingombrante, delicato e rispettoso degli attori quando poco prima di un ciak andava a piazzar loro il suo microfono, sorridente e discreto, non mi sono preoccupato un istante che stesse facendo un buon lavoro. Anzi, era lui a infondere fiducia e a farmi capire che stava andando tutto bene. Averlo sul set è stato preziosissimo, le chiacchiere a fine giornata e il bicchiere di vino nel giorno di pausa all’enoteca Pinard in città nel giorno di pausa una piacevolissima nuova amicizia.

Oggi mi trovo al montaggio di Atlas e quotidianamente scopro il tesoro che Marc ci ha lasciato: non devo aggiungere musiche o effetti posticci per far emergere le vibrazioni sonore dei protagonisti e dei luoghi perché è tutto là, nelle piste incise da lui. Ogni respiro ha la distanza giusta, ogni ambiente si rivela anche in ciò che è invisibile. Tutto ha una dimensione, una profondità e una vita oltre ciò che si vede. Le fronde degli alberi, la città che dorme fuori dal salotto immerso nella notte, l’angoscia dell’immobilita nel fiato mozzato di chi non sa che cosa dire, le parole morte sulle labbra perché troppo difficili da esprimere. Il brusio di una festicciola fra amici e le crepe del parquet nei passi della protagonista. Marc vive e vivrà in quell’invisibile. 

Mi mancherà molto. Aspettavo di incontrarlo una volta ultimato il film. Atlas da oggi è un po’ più suo.

Stanotte mi sono andato a riascoltare alcuni suoi ambienti. Ne ho messi un paio qui. Catturava l’invisibile Marc.

Hier, j’ai reçu une très triste nouvelle. Mon cher ami et collègue Marc Engles, l’ingénieur du son de nombreux films dont “Atlas”, a disparu. Sa compagne de vie, Sabine, nous en informe.

En Belgique, où il vivait, le Covid-19 l’a pris. Nous le découvrons alors que nous sommes tous enfermés dans notre isolement. Je suis frappé, en silence.

Marc pour moi était un “cadeau” qui est venu grâce à la belle coproduction belge pour “Atlas”. Ils m’ont proposé de travailler avec un Belge, j’ai demandé conseil et ils m’ont donné son nom : “c’est très populaire mais ton projet pourrait l’intéresser”. Un premier contact à travers la production, lui qui a lu le scénario, puis une soirée très conviviale à discuter, lui et moi, dans une brasserie bruxelloise. Après quelques jours, l’e-mail : Marc était avec nous. J’étais très heureux d’avoir quelqu’un avec son expérience dans l’équipe. Et encore plus heureux après l’avoir rencontré, car en plus d’être compétent, il était gentil, drôle, très agréable, la personne idéale avec qui passer des semaines sur le plateau.

Beaucoup de gens pensent que le travail d’un ingénieur du son consiste plus ou moins en l’enregistrement de dialogues. Quand je l’ai rencontré, autour d’un verre de vin (Marc est encore le seul Belge que je connaisse qui aimait le vin plus que la bière artisanale), je lui ai dit que j’aurais aimé avoir des silences pour ce film. Marc s’est illuminé. Nous nous sommes compris en un instant. Capturer les sons d’un film fait d’hésitations, de souffles, de silences suspendus et de quelques mots étouffés dans la gorge est sacrément difficile. Et Marc était un maître en la matière. J’ai beaucoup appris avec lui. Jamais maladroit, délicat et respectueux des acteurs quand juste avant une prise il allait placer son micro, souriant et discret, je n’ai pas eu un seul instant le souci qu’il fasse du bon travail. En fait, c’est lui qui m’a donné confiance et m’a fait comprendre que tout allait bien. L’avoir sur le plateau a été inestimable, les conversations de fin de journée et le verre de vin du jour de congé chez le caviste de Pinard en ville ont permis de tisser une nouvelle amitié très heureuse.

Aujourd’hui, je travaille au montage de «Atlas» et chaque jour je découvre le trésor que Marc nous a laissé : je n’ai pas besoin d’ajouter de la musique ou de faux effets pour faire ressortir les vibrations sonores des protagonistes et des lieux car tout est là, dans les traces gravées par lui. Chaque respiration a la bonne distance, chaque environnement se révèle même dans l’invisible. Tout a une dimension, une profondeur et une vie au-delà de ce qui est vu. Les branches des arbres, la ville qui dort hors du salon immergé dans la nuit, l’angoisse de l’immobilité dans le souffle coupé de ceux qui ne savent que dire, les mots morts sur leurs lèvres parce qu’ils sont trop difficiles à exprimer. Le bourdonnement d’une petite fête entre amis et les fissures du parquet dans les pas du protagoniste. Marc vit et vivra dans cet invisible. 

Il me manquera beaucoup. J’attendais de le rencontrer après le film. Atlas est maintenant un peu plus à lui.

Hier soir, je suis allé réécouter certaines de ses prises de son. J’en ai mis quelques-uns dans la vidéo ci-dessus. Il a capturé l’invisible Marc.

Marc Engels sul set «Atlas». Foto by Sabine Cattaneo. Imagofilm Lugano

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Un film per STAREACASA

In vista del periodo all’insegna dello #STIAMOACASA metto a disposizione il nostro catalogo casalingo di film in DVD e Blu-ray. Per chi vive a Lugano città volentieri vi porto in bicicletta un film in prestito (ve lo lascio in buca, niente paura 😷), per gli altri, se passate a ritirarlo ve lo posso lasciare allo Spazio 1929 o in altro luogo stabilito. Qui trovate un elenco (parziale) dei film che abbiamo a casa. Scrivetemi in privato. Potete anche chiedermi consigli o film “sorpresa”. Anche perché l’elenco non è completo.

➡️ 🎬 http://niccolocastelli.ch/special/elenco_film_niccolo

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Comincia da qui

01.03.2020 – Non avrei mai pensato di avere un giorno “un santino”. E invece eccolo. Ho deciso di mettermi a disposizione nella lista dei Verdi per il Consiglio Comunale della mia città, Lugano.

È l‘ora di partecipare al discorso politico e civile della città in cui sono cresciuto e che più volte ho cercato di raccontare nei miei lavori. Una città dall‘enorme potenziale poco sfruttato.

Cultura, ambiente e socialità. Dialogo tra istituzioni e professionisti della cultura indipendente, più spazio a nuovi progetti in ambito artistico a favore di cittadini e turismo, messa in rete di realtà e competenze eccellenti già presenti sul territorio. Riqualifica edilizia ecologica e abitazioni a prezzi accessibili, un centro storico in cui si possa vivere e aree periferiche con più identità e servizi, sviluppo della mobilità lenta in tutto il comune, accesso pubblico al lago e alle vie d’acqua: sono alcuni dei temi sui quali investire con coraggio.

Dobbiamo valorizzare la nostra posizione privilegiata sia in ambito culturale che geografico per essere avanguardia. La crisi della piazza finanziaria ci ha mostrato quanto ora sia importante costruire su basi solide e non sul guadagno facile, per pochi, che consuma territorio e risorse. É stato perso tempo ma ne abbiamo altrettanto perché della crisi si colgano le opportunità per disegnare la città in cui vorremmo vivere. Vedo ciò che si può fare e sono ottimista.

È una sfida e credo che la mia generazione abbia il dovere di fare la sua parte.

“Questa è l’ora” per una città sostenibile, rispettosa dell’essere umano e della natura.

→ chi sono
verditicino.ch

Nel mio blog di tanto in tanto parlo di Lugano. Troverete ciò che scrivo a tal proposito qui: niccolocastelli.ch/lugano/

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Ciao Marco

Questa sera sulla TV Svizzero tedesca Schweizer Radio und Fernsehen (SRF 1 ore 23.00 ca.) andrà in onda «Tutti Giù». Cercando tra le fotografie del set del 2012 troviamo questa: Marco Zucchi intervista Pietro Zuercher durante due giorni di visita alle riprese del film sulle piste di sci.

Marco non mancava mai di visitare i nostri set, realizzare reportage che poi andavano a sostenere le produzioni locali. Con la sua simpatia e il suo entusiasmo era in grado di appassionare il pubblico anche per le pellicole girate qui da noi. Era curioso per ogni cosa che si muoveva dietro e davanti alla cinepresa e non mancava mai di dare spazio in radio, tv e web a tutti i professionisti del cinema, non solo attori, produttori e registi.

E poi organizzava le proiezioni dei film “local” in cineclub e scuole, spiegando ad appassionati e ragazzi cosa stesse dietro al fare cinema.

Ciao Marco. Ci manchi già. Ti penseremo spesso prima e dopo ogni nuovo AZIONE. Io, personalmente, ti ricorderò per le prime trasmissioni radio dal festival e i programmi realizzati assieme a Metropolis. E stasera tornerò con piacere a quando quel giorno, dopo le interviste sul set feci pure la comparsa sulle piste di «Tutti Giù».

Addio a Marco Zucchi (RSI – 12.1.2020)

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017

Sull’ex deposito ARL di Viganello

27.11.2019 – Una città che ha una visione propone e porta avanti un disegno ben preciso per un quartiere che presto vedrà al suo centro un nuovo campus universitario. Il campus porterà giovani, studenti, ricercatori, amanti della cultura, dell’architettura, del bello, persone che a Lugano potrebbero regalare un valore aggiunto. La maggior parte degli studenti più intraprendenti va là dove oltre all’università v’è un humus nel quale vivere gli anni universitari.

Il vecchio deposito ARL sarebbe stato un luogo ideale in cui sviluppare parte di una visione che avrebbe dato al mondo universitario e alla città stessa questo valore aggiunto: un luogo di scambio simbiotico fra studenti, cittadini e imprese del posto a volto di un quartiere e una città con un piede nel futuro. Ristorazione km0 con prodotti artigianali locali in un paio di bar dove gli studenti vanno a studiare e dove alcuni di loro trovano un lavoro serale per pagarsi gli studi; un club per concerti dove finalmente luganesi e studenti d’altrove si sarebbero potuti incontrare. E poi ancora, si sarebbero potuti rivalorizzare alcuni spazi e ricavarne degli open-space per start-up che vivono di simbiosi con l’USI, una libreria che di certo avrebbe goduto della vicinanza con l’Università, un piccolo cinema per film in lingua originale la cui programmazione è pensata in collaborazione con le facoltà di comunicazione. E son solo le prime idee. Il pubblico ci sarebbe stato, i privati, quelli che son radicati nella geografia locale e propongono un economia nuova e sostenibile, avrebbero trovato terreno fertile. Chi ha paura della concorrenza avrebbe scoperto che grazie alla spinta di luoghi come questi crescono tutti.
Una città con una visione avrebbe trovato in un luogo come l’ex deposito ARL un’opportunità.

Una città che pensa in grande non avrebbe mai permesso la vendita a un privato di uno stabile come quello e del relativo terreno a 100 metri dal nuovo campus, è pura follia, è pensare piccolo, è pensare all’oggi invece che al domani, è guardarsi i piedi mentre si cammina.

ps.: nel frattempo è nata una raccolta firme per il deposito: → potete firmare qui

→ la news (CdT 27.11.2019)

Immagine ripresa da Corriere del Ticino - © CDT/Chiara Zocchetti

© N. Castelli, Paranoiko pictures – 2017