Questo commento è apparso sul quotidiano La Regione del 14.04.2025 → all’articolo
14 aprile 2025 |di Niccolò Castelli, direttore artistico Giornate di Soletta
In tempi in cui si parla tanto di pace e sicurezza, mi chiedo: cosa significa davvero difendere un Paese, una comunità, un’identità? Spesso invocare la guerra e proclamare la pace in modo superficiale sembrano due facce della stessa medaglia. Entrambe, svuotate di senso, si riducono a un unico gesto: rifiutare il confronto e la diversità. Da una parte, la guerra impone: “Ho ragione io”. Dall’altra, una certa idea di pace banalizzata pretende omologazione, uniformità: “Diventiamo tutti uguali”.
La cultura mette in rilievo la differenza. E per questo è forse ciò che più si avvicina all’idea di non belligeranza. Scrivere, riprendere, comporre, mettere in scena, salire su un palco, significa entrare in relazione con ciò che è esterno a noi, digerirlo, trasformarlo, restituirlo in forma di dialogo. Può assumere varie forme, anche dure, scomode, ma rimane nell’ambito del confronto teso all’incontro. Significa accettare che le nostre idee non sono universali. Che l’altro può avere una visione diversa. Chi vive l’arte, anche da spettatore, attraverso opere di ogni tipo si misura necessariamente con ciò che lo supera o lo mette in discussione. Lo “scontro”, nella cultura, genera idee, non feriti.
In questo senso, la creazione artistica è forse uno degli strumenti più potenti per prevenire la distruzione: conflitto nel senso nobile del termine, senza spargimento di sangue, per vivere una libertà in cui ognuno resta sé stesso, diverso da tutti gli altri. Eppure, guardando ai numeri, la realtà racconta altro: in Svizzera, il budget dell’esercito supera i 25 miliardi di franchi. Per tutta la cultura – letteratura, teatro, cinema, musica, danza… tutta – la Confederazione investe meno di un miliardo. Ma siamo magnanimi: arrotondiamo per eccesso. Uno. Una cifra che non cambia da anni, benché in ogni ambito siamo tutti confrontati con un incremento dei prezzi e del costo della vita.
Un miliardo che va letteralmente in fumo (e sangue), mentre il settore culturale muove salari, famiglie, strutture, servizi, città, turismo, oneri sociali. Ispira nuove idee anche in ambiti tecnologici e di ricerca, provoca sviluppando intuizioni, anche per contrasto, raccoglie storie dal passato e immagina futuro. Raccontando permette di sentirci liberi nel quotidiano, di ridere e piangere, guarire. E potrei continuare. È un universo, quello di tutte le realtà e professioni della cultura, che vive in una grande precarietà sociale ma di cui tutti, in una forma o nell’altra, approfittiamo. Un bene di prima necessità.
La mia esperienza mi ha portato a vedere – a Soletta – un pubblico affollare le sale per film che raccontano il Paese da dentro e il suo rapporto con il fuori. Opere, e discussioni a seguire le proiezioni, che mettono in dialogo lingue, sensibilità, generazioni. La cinematografia svizzera, oggi più vivace e sfaccettata che mai, è un’espressione forte della nostra identità condivisa. Sui set cinematografici che seguo in Ticino, vedo (giovani) professionisti qualificati che vorrebbero restare, non partire. Vedo alberghi vivere fuori stagione grazie alle produzioni e cittadini entusiasti scoprirsi comparse, affacciarsi a un mondo di creatività. Ispira.
E poi gli altri ambiti: la letteratura, da Friedrich Dürrenmatt, Max Frisch, Agota Kristof fino a Noëmi Lerch, argoviese venuta in Greina per scrivere in tedesco della vita sulle Alpi; da Plinio Martini a Fabio Andina, a ricordarci cosa eravamo e chi siamo. E con loro vi è chi traduce le opere e chi le pubblica e le rende disponibili: cosa sarebbe di questa produzione senza un sostegno di Confederazione, Cantoni, Comuni? La musica: penso al raffinato incontro fra rock e jazz di Sophie Hunger in concerti da tutto esaurito a Berlino e all’hard rock dei Gotthard, che da Viganello hanno dovuto valicare il San Gottardo per trovare sostegno, produzione, fino ad arrivare ai palchi in Giappone. Fino ai Peter Kernel che dal Malcantone, 60 concerti l’anno, girano un’Europa che li riconosce come una delle voci più originali della scena indipendente. Il teatro: da compagnie ticinesi come Trickster-p, che partendo da Novazzano vanno oltre i confini della pièce nella sua forma classica, fino ai Mummenschanz, che per decenni hanno portato nel mondo il sogno senza nemmeno una parola.
Vogliamo davvero difendere la nostra identità solo con i carri armati? Vogliamo proteggerla con le bombe, o con le parole, le immagini, i suoni e le idee ed emozioni che la esprimono? Mi rivolgo alla politica: dirottare quel miliardo da un magazzino di munizioni a uno spazio creativo non rafforzerebbe meglio il Paese che rappresentate? Un miliardo in più per la cultura non è un sogno, è una scelta. Una scelta possibile. Ci vuole coraggio per farla?
A proposito di munizioni: “Una serie di gravi esplosioni avvenute il 19 e 20 dicembre 1947 in un deposito di munizioni dell’esercito svizzero a Mitholz, nel comune di Kandergrund, in Svizzera, causò una delle più grandi esplosioni artificiali non causate da armi nucleari.” Fonte: wikipedia